lunedì 21 marzo 2016

sabato 5 marzo 2016

IL CONTE GALANTUOMO



   
                                     


Cavour è una cittadina di poco più di cinquemila abitanti, situata all'inizio della valle del Po...ma non è di questo che volevo parlarvi.
Camillo Paolo Filippo Giulio Benso conte di Cavour: ecco il personaggio di oggi. Come lo statista avesse lavorato “per fare l'Italia” ce lo ha già raccontato la storia e non intendo dilungarmi in argomenti arcinoti.
Questo post tende a mettere in luce il ritratto dell'uomo Cavour nei suoi aspetti non sempre raccontati.
Prima, però, mi sia concessa un'osservazione: il Conte non fu mai un “patriota”, ossia non credette all'unità d'Italia e alla sua necessità, almeno finchè le circostanze non la favoriranno.  Alla vigilia dell'unità, infatti, si profilava per l'Italia una Confederazione di Stati.  L'iniziativa, partita dallo statista, aveva preso corpo a Plombières dopo l'incontro con NapoleoneIII.
Esiste, a tale proposito, un resoconto dettagliato vergato dallo stesso Cavour in una lettera inviata a Vittorio Emanuele II.
Ecco come la pensava Camillo Benso, prima che l'irruento Garibaldi entrasse a gamba tesa:                                                                                 
  - creazione di un Regno dell' Alta Italia, sotto la sovranità dei Savoia;
  - costituzione di un Regno dell' Italia centrale, con capitale Firenze, da   affidare ad un sovrano gradito a Napoleone;
 - conservazione del Regno meridionale,  arricchito da Umbria e Marche,   sotto la corona Borbone o da affidare ad un sovrano da stabilire come, invece, chiedeva Napoleone.
La Chiesa avrebbe conservato Roma e gran parte del Lazio.
Ma torniamo all'uomo Cavour:  il futuro statista nasce a Torino nel 1810 da una tipica famiglia di quella nobiltà piemontese, che integrava le  rendite terriere col servizio di Stato.  Il giovane Camillo era ribelle a tutto,   è per questo che a dieci anni viene destinato alla carriera militare, che allora era considerata un sicuro rifugio dei figli difficili.
 Orgoglio, insolenza, sarcasmo, smania di supremazia lo rendevano inviso non soltanto ai superiori, ma anche agli stessi compagni.
Terminata con un dignitoso congedo l'esperienza militare,fortunatamente anche il padre si era reso conto  che non era vita per lui, il giovane Camillo è descritto dalle cronache del tempo come un giovane estroverso, intelligente, animato da una dirompente vitalità, ingordo di tutto, donnaiolo e accanito giocatore.  Il padre, in una lettera alla moglie ne fa questo ritratto:”..ha così onorato la mensa: zuppa, due cotolette, un piatto di lesso, un beccaccino, riso, patate, uva, caffè. Dopodichè mi ha recitato parecchi canti di Dante, le canzoni di Petrarca....tutto questo passeggiando a grandi passi in vestaglia con le mani affondate nelle tasche”.
Liberista in economia, egli concepiva la politica come un ordinato sviluppo di una società volto a ridurne gli squilibri, ma senza coartazioni.
Questo modo di pensare lo rendeva aspramente critico del regime piemontese che, invece di favorire lo sviluppo della società, tendeva a mummificarla nelle sue vecchie strutture.
Fonti cattoliche ancora oggi vedono in Cavour un personaggio al di sopra di qualsiasi vincolo o regola morale, incapace di vedere oltre i suoi immediati interessi tutti di ordine politico e sociale.  In particolare sostengono che in Conte avesse l'obiettivo di farla finita con la Chiesa, che considerava capillarmente  e pericolosamente presente in ogni strato della società  con le sue istituzioni.     
In realtà Cavour fu implacabile solo verso il clero ostile, giunse a far arrestare  il Cardinale di Pisa ed il vicario di Bologna, che avevano vietato il Te Deum alla festa dello Statuto. L'arresto, decisamente poco legale , tendeva a sottolineare che la Chiesa non poteva imporre nulla allo Stato, se mai il contrario.
Eppure una religione l'aveva, ma era solo trascendenza, cioè convinzione che la vita di un uomo acquista un senso solo quando si mette al servizio di qualcosa che sta al di sopra di lui e dei suoi egoismi.
Non era  assolutamente ateo, sua è questa bellissima frase: ” Che cos'è l'uomo più felice senza la fede? Un fiore in un bicchiere d'acqua, senza radici e durata.”  Anche un simile galantuomo, come gli altri Padri della Patria, sarà colpito dalla scomunica.
Da vero libertino al “gentil sesso”, come allora ancora poteva definirsi, chiedeva soltanto il piacere, né mai volle né concesse di più. La sua unica vera amante era la politica; la sua passione il potere.
Camillo Benso era infatuato della Francia, in particolare amava Parigi;
Londra gli piacque meno, forse contribuì anche un certo risentimento per il modo in cui l'orgogliosa società inglese accolse lo sconosciuto Conte di un paesino piemontese. Cavour non fu neanche sfiorato dall'idea di andare a visitare com'era fatta l'Italia di Milano, di Roma, di Venezia, di Napoli.  Solo dopo l'unificazione scenderà a visitare Bologna, Pisa e Firenze; ne trasse un giudizio negativo per l'aspetto che a lui più premeva:   l'organizzazione politico amministrativa.
Solitamente Vittorio Emanuele e Cavour vengono presentati in simbiosi, ma non è così; il Re inizialmente diffidava dello statista e solo dopo l'intervento di La Marmora, che godeva la piena fiducia del Monarca, si decise ad accettare la proposta di D'Azeglio che lo reclamava al governo per meglio controllarlo.  A questo proposito Minghetti racconta una versione che perfettamente si attaglia al carattere e allo stile del Re, che in questa occasione avrebbe detto:”E va bene, come vogliono loro. Ma stiano sicuri che quello lì in poco tempo an lo fica an't el pronio a tuti”. Naturalmente in stretto dialetto piemontese.
Cavour, per tutta la vita, anche da Primo Ministro, continuerà a parlare e a scrivere in italiano, traducendo dal francese, lingua che usava in famiglia e in privato. Intelligente, cinico, colto, longimirante, il Conte fu il più grande statista del nostro Paese...forse, purtroppo, l'unico.
Diventato Presidente del Consiglio, oramai godeva la piena fiducia del Re, anche in mancanza di altri personaggi all'altezza di affrontare gli immensi problemi dell'unificazione, il Conte fu colto a tradimento dal male che gli fu fatale: malaria degenerata in perniciosa per errore di cure.   Quando entrò il confessore con l'olio santo, che lui stesso aveva chiesto, il Conte, rimasto solo col frate, iniziò un colloquio noto soltanto a Dio.
Oggi la Chiesa in un unico abbraccio sembra raccogliere peccato e peccatore, sembra che il pentimento non sia del tutto necessario.  Un tempo non era così: il peccatore era perdonato solo dopo aver rinnegato il peccato e, minare alla base il potere temporale, non era “un” era “il” peccato.  E il Conte ne era colpevole.  La Chiesa inquisì il frate che confessò  Cavour senza costringerlo a rinnegare il suo operato per l'Unità d'Italia.  Se la Giustizia Divina abbia giudicato con severità Cavour non lo sappiamo; se così fosse, non oso pensare quale sorte abbiano avuto i suoi accusatori.
Il 6 giugno1861, quando si sparse la notizia della sua morte, Torino prese il lutto.  I negozianti abbassarono le saracinesche, i teatri chiusero gli sportelli; le strade si svuotarono.  Il cordoglio era generale e sincero.
Forse l'omaggio più cavalleresco glielo rese alla Camera il suo arcinemico Ferrari: “No, voi non sentirete da me in questo recinto una parola contraria al Conte di Cavour, che ha compiuto l'opera sua, che ci ha vinti, e la cui morte nella vittoria può essere augurata al migliore dei nostri amici....”.

  MASSIMO.