giovedì 26 febbraio 2009

Un "Sassarino" racconta di suo nonno "Sassarino"

Simone Faedda
Non è un’ esperienza vissuta nella mia vita in grigioverde; è il racconto di come mio nonno Simone è morto a Monte Zebio. Era un “sassarino” , come moltissimi sardi. Era un eroe sconosciuto, come tanti. Nei racconti di mio padre traspariva l’orgoglio per il sangue versato da nonno Simone più che il rammarico per la pesante eredità di una vita da orfano a 4 anni lasciatagli dal destino. Mi sono chiesto tante volte dove i nostri soldati trovassero la forza e la convinzione di offrire le loro vite per una causa che era forse lontana dai loro sentimenti. I sardi erano più sardi che italiani. L’Italia però era fatta di fratelli da liberare dal giogo straniero …. Senza enfasi, senza troppe parole, come nel nostro modo di essere, se una cosa deve essere fatta la facciamo. E basta. Forse non ancora non so dove i tanti eroi senza medaglia abbiano attinto quella generosità, quella abnegazione che li ha spinti a offrire le loro vite …

Gente semplice della Brigata “Sassari” : eroi senza medaglia.


Bonorva era lontana tre giorni e tre notti di tradotta e di nave.
Bonorva: un dedalo di vicoli intorno a via Muristene, in cima alla quale domina la chiesa di Santa Vittoria. Le case sono tutte basse, incollate l’una all’altra e spesso flagellate dalla tramontana e dalla pioggia che pero’ non riescono a cancellare il profumo stagnante di pane e di farina.
Dal campanile di Santa Vittoria si domina tutta la campagna di Bonorva: dalla fontana di Manielle a Campugiavesu, dalla piana di Santa Lucia alle asperità di Su Monte.
In quel villaggio, in quelle case di pietra bianca, le famiglie vivono al centro di un mondo dai confini visibili: le greggi a Santa Lucia o, nella transumanza, a Su Monte, i campi di grano duro a Campugiavesu.

L’invisibile, l’infinito, il trascendente, la Provvidenza è a Santa Vittoria, dove tutti i giorni anziane donne, in un misto di sardo e latino, recitano il Santo Rosario e dove tutte le domeniche anche gli uomini e i bambini ascoltano le parole di speranza del parroco che invoca la luce del Signore perché discenda, buon popolo di buoni pastori, sui Bonorvesi. E dopo la S. Messa finalmente i bambini, cavalcando cavalli fatti con le canne, sciamano per lo stradone fino alla fontana di Manielle, improbabili eroi di un leggendario e sconosciuto Far West. E’ il solo giorno della settimana in cui loro, bambini, possono ritornare alla fantasia della loro età e dimenticare il lavoro dei campi e dietro le greggi, intrapreso a sei anni.

Forse il fante Simone Faedda pensava a Bonorva quella notte del 10 giugno 1917, alle pendici del Monte Zebio, dove in piedi dentro il trincerone, in mezzo al fango svolgeva il suo turno di sentinella.
Quello appena trascorso era stato un giorno particolarmente duro. Il suo Battaglione avrebbe dovuto occupare Monte Zebio. In quel tratto di duecento metri che separava le due linee, il fuoco delle mitragliatrici austriache era stato micidiale ed inutili i tentativi dei Sassarini di superare i reticolati davanti alle loro trincee.
L’ordine era stato di avanzare a qualunque costo e per tutta la giornata era stato un susseguirsi di attacchi e contrattacchi. Senza esiti.
E cosi’ era finita la giornata. Una pioggerella lenta e noiosa scendeva sul triste campo di Monte Zebio, accompagnando il turno di guardia di Simone e ammantandolo di solitudine e pensieri.
Il fante Simone Faedda era un veterano, in tutti i sensi: classe 1880, aveva 35 anni quando, nel 1915, lo avevano richiamato alle armi, perché era iniziata la guerra. Aveva lasciato a casa tre figli piccoli ed una moglie incinta di cinque mesi. Aveva affidato le sue pecore, una cinquantina, e la terra seminata a grano ad un vecchio zio che poteva fare affidamento su Giomaria, il figlio maggiore di Simone, un esperto ometto di quasi otto anni.
Non era stato molto felice, Simone, di partire per la guerra. Ma un Ufficiale della Brigata “Sassari”, dove era stato assegnato, gli aveva spiegato che Bonorva era soltanto un piccolo punto della Sardegna che, a sua volta, era soltanto una piccola parte dell’Italia: la Patria. Sicuramente Simone non sapeva esattamente come si scrivesse la parola Patria, ma aveva capito che altri uomini, italiani come lui, dovevano essere liberati dallo “straniero”. Forse intuì, e sicuramente si convinse che questo doveva essere fatto.
Erano stati da allora due anni di fatica, di sudore, di gelo, di pioggia e di sole caldissimo. Quasi sempre in trincea.
Non solo quel 10 giugno 1917, ma chissà quante volte il fante Simone Faedda, classe 1880, aveva pensato a Bonorva dove, in quegli angusti confini, c’era tutto il suo mondo: Annamaria, sua moglie, che forse ancora allattava Salvatore, che lui presto avrebbe finalmente conosciuto, c’erano Giomaria, AntonioMaria e Francesco, c’era la casa bianca con il profumo di farina e di pane, c’era il gregge ed il campo di grano.
Arrivava l’alba: i primi raggi di luce faticavano ad insinuarsi attraverso quella fitta pioggerella, mentre la terra umida di Monte Zebio gli scaricava brividi di freddo su tutto il corpo.
Oggi ce la faremo a superare questi pochi metri, come a Bosco Cappuccio, battesimo di fuoco, come a Castelgomberto, come sempre hanno fatto i “Sassarini”. Fra poco tutta la compagnia sarà qui e accompagnati dall’artiglieria partiremo all’assalto... e poi, finalmente forse potrò andare in licenza ”.
Forse pensava questo, Simone, quando due lampi improvvisi squarciarono l’aria, seguiti da due granate che con rumore sordo caddero nella trincea.
Dalle baracche uscirono tutti di corsa, il caporale Agostino De Roma per primo. E mentre correva verso il trincerone chiamava Simone, senza sentire risposta. Agostino era legato a Simone da sincera amicizia fin dal giorno del richiamo: stessa classe di leva, stesso reggimento, battaglione, compagnia, plotone. Stessi pensieri: anche lui aveva lasciato in Sardegna la moglie e quattro figli, il suo campo coltivato a grano ed il suo gregge a pascolare nella sterminata piana della Nurra.
Ma la Nurra non e’ che un piccolo punto della Sardegna
che, a sua volta, e’ solo un piccolo pezzo d’Italia: la Patria.
E Agostino De Roma piangeva mentre stringeva a se’ Simone, ma le sue lacrime non avrebbero più potuto scaldare il corpo dilaniato di Simone.
Qualche giorno dopo a Bonorva le campane suonarono i rintocchi di morte, dando ad Annamaria un triste presagio che diventò certezza quando i Carabinieri bussarono alla sua porta, in uno stretto vicolo nei pressi di via Muristene, in cima alla quale la chiesa di Santa Vittoria domina tutto il villaggio.

(PFF)

ALMANACCO STORICO MARZO

Fatti e protagonisti della storia militare nazionale.

1. Battaglia di Adua, Eritrea, 1896 (Gen. Oreste Baratieri).
4. Ultima controffensiva tedesca su Anzio (Roma), 1944 (Gen. Eberhard von Mackensen).
11. 5a Battaglia dell’Isonzo (inizio), fronte giulio, 1916 (Gen. Luigi Cadorna).
12. Battaglia delle Due Palme, Cirenaica, 1912 (Gen. Giovanni Ameglio).
13. Combattimento di S. Martino del Carso, 5a Battaglia dell’Isonzo, 1916.
14. Conquista del varco di Monastir, fronte greco-albanese, 1941 (Divisioni “Puglie” e “Bari”).
15. Costituzione della Xa Flottiglia MAS, La Spezia, 1941 (C.F. Vittorio Moccagatta).
17. Insurrezione di Venezia, Regno Lombardo-Veneto, 1848 (Daniele Manin).
17. Proclamazione del Regno d’Italia, Torino, 1861 (re Vittorio Emanuele II).
17. Battaglia di Tepeleni (fine), fronte greco - albanese, 1941.
18. Cinque giornate di Milano, Regno Lombardo-Veneto, 1848 (Carlo Cattaneo).
20. Combattimento della Cava (PV), 1849 (Gen. Marcello Gianotti).
21. Combattimento della Sforzesca, Vigevano (PV), 1849 (Gen. Michele Bes).
21. Combattimento di Mortara (PV), 1849 (Gen. Giovanni Durando).
21. Resa dell’oasi di Giarabub, Cirenaica, 1941 (Col. Salvatore Castagna).
23. Battaglia di Novara, 1a guerra d’indipendenza (fine), 1849 (Gen. Wojciech Chrzanowski).
23. Dieci giornate di Brescia, Regno Lombardo-Veneto, 1849 (Tito Speri).
25. Rioccupazione di Adigrat, Eritrea, 1895 (Gen. Oreste Baratieri).
26. Occupazione di Milano, 1a guerra d’indipendenza (inizio), 1848 (Gen. Michele Bes).
26. Azione di barchini esplosivi nella baia di Suda, Isola di Creta, 1941 (T.V. Luigi Faggioni).
27. Battaglia di Cheren (fine), Africa Orientale Italiana, 1941 (Gen. Nicola Carnimeo).
28. Battaglia navale di Capo Matapan, Peloponneso, 1941 (Amm. Angelo Iachino).
29. 5a Battaglia dell’Isonzo (fine), fronte giulio, 1916. Presa delle posizioni del “Lenzuolo Bianco” e della “Madonnina” ad Oslavia (Brigate “Granatieri di Sardegna” e “Lombardia”).

mercoledì 25 febbraio 2009

Vi ricordate di lui ??????
Era a Torino con noi : si chiamava RICCARDO ZUNIGA Y MORAZAN .
E' deceduto nel 83/84 con il grado di Maggiore durante un conflitto a fuoco con avversari politici; era il figlio dell'allora Presidente del Consiglio dell'Honduras.
Riccardo Zuniga Y Morazan: lo chiamavamo Montezuma.

Giovanni Papi lo ricorda così.
Me lo ricordo con simpatia, forse era nella mia sezione a Torino. Lo chiamavamo Montezuma per via del suo paese , anche se non correttamente dal punto di vista storico geografico.
In addestramento indossava degli anfibi che non erano di cuoio come i nostri ma di tela. Una volta mentre ci addestravamo con i mortai Mastrantonio ( quello che aveva i baffi al posto delle ciglia) scherzava con la palina di puntamento proprio intorno a Zuniga. Infilzava la palina ora a destra ora a sinistra dei suoi piedi quando, o si e' mosso il piede o si e' sbagliato Bruno , ed ecco che il povero Montezuma rimase piantato per terra e l'unica cosa che poteva fare era quella di girare in tondo come un compasso! Forse non e' bello scherzare sulla memoria di un vecchio collega ma credo che se potesse leggere le mail , forse si divertirebbe anche lui! E' evidente che in questi anni ogni volta che ho incontrato Mastrantonio oltre a ricordargli l'episodio, se potevo, nascondevo i piedi sotto un tavolo.
Un abbraccio da Giovanni Papi

Le foto di Piuma

Francesco ci manda queste foto , se le vuoi vedere tutte vai ......


La ripresa speciale con il mitico Vaccari
La squadra di pallacanestro

lunedì 23 febbraio 2009

Gigione ci manda qualche foto di Torino

Chi si ricorda questa marcia nella neve ?????

Andrea Caso : grande in barca ma anche sulla neve.
Pierfranco Faedda: ma è in piedi ??????


Ce ne sono delle altre , vai a vederle su ...........

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Antonio Piemontese si racconta.

A TUTTI I MIEI AMATI COMPAGNI DEL 150° CORSO “MONTELLO”

Non senza esitazione e timore d’essere frainteso circa le finalità delle presenti righe ed incoraggiato dal suggerimento di alcuni di noi, mi accingo a condividere con tutti voi, amati compagni di Corso, una mia personale esperienza umana e spirituale che credo e spero possa rappresentare per credenti e non, per praticanti e non, uno “spunto di riflessione” ........

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domenica 22 febbraio 2009

L'Anzianissimo si ricorda di noi. La Famiglia si allarga .

Carissimo Ettore,
ti scrivo d'impulso dopo aver terminato di visitare il Vostro bellissimo Blog, di cui, peraltro, già da tempo mi avevi mandato i riferimenti necessari e che colpevolmente solo oggi sono riuscito ad "aprire". Complimenti è un ottimo prodotto per impostazione grafica e soprattutto pregevole fonte di informazioni storiche, politiche e sociali, nonché veicolo di quei valori etici propri di noi militari. Non voglio cimentarmi in commenti e analisi sui fatti che caratterizzano il momento storico-sociale che sta attraversando il nostro Paese. Sicuramente non avrei nulla da aggiungere a quello che tu e i tuoi compagni di Corso state dicendo così bene. Consentimi, invece, di narrarti e narrarvi (se poi vorrai inserire questo mio scritto nel Blog) le sensazioni che ho provato e le impressioni che ho sviluppato al termine della visione e della lettura del Numero Unico redatto in occasione del vostro Quarantennale.
Voglio prima di tutto dirti che il gesto da te compiuto domandandomelo non mi ha sorpreso, perché tale gesto è proprio del tuo modo di saper essere amico. Un amico nel senso più compiuto del termine; amico che non permette al tempo che trascorre di intiepidire i rapporti; un amico che quando forse non ci pensavi più compie un gesto che ti fa dire: Ettore riesce sempre a farsi sentire vicino. AMICO, ti prego di credermi, queste non sono parole di circostanza. Sono espressioni di un sentire e di una convinzione che mi accompagnano da quando ho avuto modo di conoscerti in profondità.
Ora basta, voglio parlarti del vostro Numero Unico. Opera pregevole.
Ho riletto tutto di un fiato la memoria storica della Battaglia di Vittorio Veneto, documento che già conoscevo, ma del quale non avevo avuto modo di esaminare la cartografia.
Sono passato quindi alla consultazione del "Ruolino, comportamento a tavola, valutazioni del tirocinio e calendario d'esami". Non ricordo, al di la del calendario d'esami, di aver mai visto cose simili relativamente al mio Corso. Un po' mi dispiace: sai le risate nel leggere il mio numero di matricola preceduto dal codice FAVE ("SI ! , e er pecorino 'ndo sta ????"). Favoloso il manuale di comportamento a tavola. Ma in quale altro luogo al mondo si impartivano o si impartiscono ancora certe regole di vita sicuramente non secondarie (sono sempre stato convinto che la forma è anche sostanza).
Ho lasciato per ultima la consultazione del Numero Unico, perché sapevo che sarebbe stata la più difficile da gestire per quel fiume di ricordi e di suggestioni che avrebbe generato in me. SI ! caro Ettore, ricordi e suggestioni che ho provato anche se non provengo dal vostro Corso. Ricordi e suggestioni che forse è possibile attribuire a due ordini di motivi.
Il primo deriva certamente dall'aver frequentato il Corso Superiore di SM, il 108°, insieme a voi, ma non solo. Con molti tuoi colleghi ho anche condiviso bellissime esperienze di servizio.
Come posso dimenticare, carissimo Pierluigi Genta, gli entusiasmanti anni all'Ufficio Armi e Munizioni dello SME, a combattere la nostra battaglia per introdurre in servizio il SAGAT e per portare avanti tutti gli altri programmi di ammodernamento e rinnovamento della Forza Armata. Quanto arricchimento professionale, culturale e soprattutto umano.
Carissimo Alessandro Pompegnani, come non commuoversi nel vedere la tua foto e ricordare quei meravigliosi anni al 132° rgt. a. cor. "Ariete", lo sferragliare dei nostri semoventi sul Cellina-Meduna, a sfidare la silicosi come amavi chiosare tu; il tuo gesto meraviglioso di avermi voluto inviare una copia del libro da te prodotto mentre eri al comando di quella nostra meravigliosa Unità. Ti ricordasti di me anche se in quegli anni mi ero mimetizzato altrove.
Si ricordo anche te, Silvano Bigongiari, sciagurato toscanaccio; ricordi quando voi bersaglieri e carristi di Aviano chiamavate noi artiglieri di Maniago "cugini di campagna".
Come non ricordare te, carissimo Nicola Cortina e la tua vicinanza durante il mio periodo di comando a Pistoia.
Come dimenticare te, carissimo Vito Di Ventura, per la comune esperienza allo SME.
Ricordo con tanto affetto anche te carissimo Giacomo Guarnera, che meraviglioso anno è stato quello vissuto a Firenze.
Anche di te, carissimo Carlo Gibellino ho una montagna di ricordi, ma quello che più spesso mi torna alla mente è relativo al viaggio che facemmo insieme da Roma a Civitavecchia, alla vigilia della prova scritta per l'ammissione al 108° Corso Superiore di SM. Ricordi? durante quel viaggio la tua malandata macchinina consumò più olio che benzina.
E poi Leonardo Prizzi (a proposito, carissimo Leo, conto di venirti a trovare presto a L'Aquila).
E poi te, grandissimo Granatiere di Orbetello Umberto Caparro. E poi te Raffaele Palmieri e la tua sempre sottile ironia.
Adriano Santini, meraviglioso Ufficiale ed Uomo di straordinaria grandezza d'animo. Caro Adriano, mia moglie ed io ricordiamo sempre con tanto affetto la tua meravigliosa famiglia ed in particolare tua moglie che (e siamo sicuri che non ti dispiacerà) giganteggia con te in fatto di coraggio e grandezza d'animo.
E poi, e poi, e poi, e poi, diceva una bella canzone di Mina. La finisco qui, caro Ettore perché mi sembra di rileggere punto per punto il vostro Ruolino. Di te e di Gigi Pellegrino non dico nulla é vi considero parte della mia quotidianità.
Passo ad illustrare il secondo dei motivi che mi legano al vostro Corso, anzi presuntuosamente dico che lega il vostro al mio, il 148° o 23° che dir si voglia. Legame che ho scoperto guardando le foto che illustrano i momenti più significativi dei vostri due anni in Accademia. Foto che riproducono luoghi, circostanze e volti che potrebbero trovare idonea collocazione anche nel nostro Numero Unico, quello del 148° per intenderci. Mi spiego meglio. Nel mio personale album dei ricordi ho immagini del tutto simili, oserei dire identiche alle vostre. Stessa mano, stessa regia, identiche le luci, le ombre, le uniformi. Medesimi i luoghi e le circostanze. E fino a qui nulla di sbalorditivo direbbe qualcuno: eravamo Corsi talmente vicini temporalmente. Ma non è così, lo sbalordimento inizia quando si osservano i volti: anche questi sono gli stessi e ciò, consentitemi, non è poi così usuale. Nelle mie foto ho riconosciuto fisionomie di molti di voi e nelle vostre ho visto molti dei miei compagni di Corso: lo stesso entusiasmo per una particola scelta di vita, l'esuberanza dei vent’anni, la speranza, i sogni, le promesse fatte a noi stessi, la fede in qualcosa di più grande di noi. E' questa forse la considerazione/costatazione più forte che emerge: voglio pensare che l'Accademia di Modena, l'Accademia dell'Esercito Italiano ha generato un continuum di cui siamo parte. Non siamo allievi del 148° o 150° Corso, noi apparteniamo a tutti i Corsi che si sono avvicendati e si avvicenderanno nel Palazzo Ducale di Modena. Noi apparteniamo all'Accademia, Noi apparteniamo all'Esercito Italiano. Come nel bellissimo film ambientato a West Point, " La lunga linea grigia", noi siamo una lunga linea, non so di quale colore, che continuerà a snodarsi ed a farsi ossatura del nostro Paese..
Carissimi amici, carissimi fratelli, pensiamo sempre a questo e poi sbattiamocene di quanti diranno che vigiliamo il Deserto dei Tartari. Quando costoro saranno scomparsi con tutte le loro miserie e meschinità, noi saremo ancora lì a vegliare sulla nostra Bandiera, sulla Nazione e sulla Sua gente.
Vi abbraccio tutti.
Vero Fazio.

lunedì 9 febbraio 2009

E L E U A N A: perché tutto questo?

Domenica 8 febbraio 2009 è stato l’ultimo giorno di alimentazione e di idratazione artificiali ridotte; da lunedì 9 febbraio 2009, Eleuana Englaro imboccherà l’ultimo tratto della sua sfortunata e travagliata esistenza terrena.
Così vuole la Legge che, però, non c’è!
Non vi è dubbio che la vicenda che ha visto protagonisti questa giovane donna ed i suoi familiari abbia straziato le coscienze di tutti quegli Italiani che, una coscienza, ce l’hanno, a prescindere dall’essere credenti o meno; ma lo “strazio” è stato reso, se possibile, ancor più devastante da quanto è avvenuto intorno ad essa, a cominciare dallo sciacallaggio mediatico (millantato per il solito, ipocrita “diritto-dovere di informazione”), per attraversare l’eterna polemica laici vs cattolici, per sfociare, dulcis in fundo, in quello che viene definito “scontro istituzionale” tra il Quirinale ed il Governo.
Una vicenda tanto intima che avrebbe richiesto la massima discrezione, quasi un pudico rispetto per le sofferenze inaudite cui tutti i protagonisti sono stati sottoposti per oltre diciassette anni ma che evidentemente non sono state sufficienti ad impedire a coloro che si arrogano il diritto di detenere il “monopolio” della vita o della morte di far di tutto per “rubare la scena”. E per di più, italico modo , evidenziando contraddizioni, politicizzando il “privato”, mischiando il sacro con il profano e arrivando alla solita”procedura d’urgenza” quando sono stati lasciati trascorrere invano anni ed anni.
La prima contraddizione la fornisce la Magistratura che prima e per ben due volte (Tribunale di Lecco nel 2005, Corte d’Appello di Milano nel 2006) sostiene che non esistevano prove vere ed affidabili , poi (Corte di Cassazione nel 2008) quelle prove non sono ritenute più necessarie ma sono sufficienti la personalità, lo stile di vita, le convinzioni religiose.....di una ragazza di diciotto anni, espresse sembra a seguito di un incidente occorso ad una sua carissima amica; “indizi”, insomma non prove e non mi risulta che si possano emettere “sentenze” sulla base di soli indizi, per di più ex post. Sulla base di questa sentenza, quella stessa Corte d’Appello di Milano ribalta il suo giudizio espresso solo due anni prima e....innesca lo spettacolo poco edificante cui stiamo assistendo.
La seconda contraddizione riguarda il nostro Premier che solo poco più di una settimana fa dichiarava (con il tono solenne proprio delle decisioni irrevocabili) che il Governo non aveva nessuna intenzione di intervenire in un caso che era già stato “sentenziato” dalla Cassazione. Ora quello stesso Premier – nei nuovi panni del “difensore della vita”- pretende che il Capo dello Stato avalli come urgente un provvedimento che di “urgente” ha solo il voler mascherare inadempienze precedenti, peraltro per disciplinare un solo caso, per quanto drammatico. Sono anni che si parla di testamento biologico, sono mesi che il Capo dello Stato lancia espliciti inviti a che il Legislatore ponga mano a questa materia di primaria importanza, anche a costo di spaccare in due il Paese ma almeno con una legge!
E veniamo a questa povera ragazza contro cui il destino si è accanito con tanto vigore. Da tanti, troppi anni si trova in condizioni di stato vegetativo persistente e solo grazie ad una forte protezione farmacologica è riuscita a sopravvivere; non solo quindi con l’alimentazione ed con l’idratazione artificiali , bensì con quello che non sarebbe tanto sbagliato definire “accanimento terapeutico”, il cui divieto sembra essere stato accetto nella nostra giurisprudenza.
Poi c’è da considerare – ed anche molto bene- quanto ha detto il padre Beppino invitando il Capo dello Stato e quello del Governo ad andare a constatare di persona “in che condizioni è ridotta” la sua povera figlia; un essere distrutto nel corpo dalla sofferenza e dai farmaci che penso sia lontano anni luce dalla splendida e sorridente immagine che viene mostrata in continuazione, a mio avviso senza alcun rispetto e ritegno.
Ed allora, la domanda chiave è: è ancora vita, questa?
E’ lecito tacciare come “omicidio” (Card. Bagnasco) il voler porre fine a tanta sofferenza – per di più inutile -, confortati peraltro da un provvedimento della Magistratura?
E’ vero che la Costituzione ritiene la vita come un diritto indisponibile, quando poi l’art. 32 prescrive il divieto di trattamenti che violino il rispetto della persona umana?
Quali sono i confini della dignità della vita umana? Si rispetta di più facendo di tutto per mantenere in vita un corpo oramai irreversibilmente devastato e senza alcuna sia pur minima possibilità o piuttosto ponendo pietosamente fine ad un calvario senza speranze?
Si può solo lontanamente pensare che un padre voglia assassinare sua figlia o che,invece, il suo sia solo un estremo atto di pietà?
In una materia come questa è semplicemente assurdo pretendere la concordanza delle opinioni; personalmente, ritengo che la volontà individuale debba essere preminente su ogni altra considerazione: per intenderci, se e quando i nostri incliti parlamentari riusciranno a licenziare una legge sul “testamento biologico” io sarò il primo a sottoscriverlo per me.
Per porre ordine tra le tante “esternazioni” pronunciate a ruota libera, penso che quanto scrisse nel 1970 Paolo VI al Card. Villot sia degno della massima riflessione. “Pur escludendosi l’eutanasia, ciò non significa obbligare il medico a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza infaticabilmente creatrice. In tali casi non sarebbe una tortura inutile imporre la rianimazione vegetativa, nell’ultima fase di una malattia incurabile? Il dovere del medico consiste piuttosto nell’adoperarsi a calmare le sofferenze, invece di prolungare più a lungo possibile, e con qualunque mezzo e a qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va verso la conclusione”.
(Et.Ma.)

domenica 8 febbraio 2009

La mia Somalia .

Ricordi della mia esperienza in Somalia


Geppe nella tenda comando


Il 6 settembre 1993 la Brigata Paracadutisti “FOLGORE” venne avvicendata dalla Brigata Meccanizzata “LEGNANO” che assunse il comando del contingente “ITALFOR IBIS 2” nell’ambito dell’Operazione UNOSOM II “Continue hope” in Somalia.
A fine giugno ero già andato a Mogadiscio, pochi giorni prima dell’attacco al Check point “PASTA”, dove caddero tre paracadutisti e ne rimasero feriti una ventina di cui alcuni in modo molto grave, vedi S.Ten. PAGLIA.
Ero andato in ricognizione con un gruppo di Ufficiali dello Stato Maggiore della Brigata e dei Reparti dipendenti, futuri protagonisti della missione.
Era una esperienza esaltante per un Ufficiale che per tutta la vita si era preparato per un tale evento.
Alla partenza da Pisa, sullo stesso aereo, trovai il Cappellano militare che aveva celebrato il mio matrimonio. Grandi feste e tanti ricordi fecero trascorrere veloce l’avvicinamento a Mogadiscio.
L’arrivo fu un po’ traumatico: dall’alto, l’aeroporto, sulle sponde dell’Oceano Indiano, pieno di mezzi, elicotteri e vesciconi enormi di carburante sembrava la scena di un film. A terra, ricordo l’aria calda che ci investì, piena di odori pungenti ed una certa situazione di disagio, dovuta, forse, al passaggio rapido dalla cabina climatizzata dell’ A 300 ai 40° gradi polverosi.
La città pullulava di gente e le prime immagini che ricordo sono i nostri posti di controllo, disseminati nelle vie della città, e un enorme camion dal cui cassone partivano in successione, lanciate da un somalo, bottiglie in plastica d’acqua, (aiuti umanitari) bottiglie che spesso cadevano a terra scoppiando tra l’ilarità del tiratore e la rabbia dei passanti.
L’ambasciata italiana, riconquistata dai paracadutisti al primo arrivo a Mogadiscio, ci accolse come un fortino del Far West, sulle cui mura perimetrali erano sistemate coppie di tiratori a difesa.
All’interno erano ospitati:
- il Comando Brigata, una parte del Reparto Comando,
- gli incursori del “Col Moschin”,
- inservienti somali e traduttori.

Io e un collega elicotterista

Sotto un albero, in divisa, con la sua tendina da campo, con il suo vecchio moschetto 91, stazionava un vecchio ascaro, che al passaggio di Ufficiali accennava un saluto militare.
Poco lontano la tenda briefing, utilizzata solo in occasione delle visite, per la verità rare, era occupata da una grossa tartaruga che l’aveva presa come sua dimora. In caso di utilizzo della tenda la prima preoccupazione era portarla in altro luogo ed eliminare i resti dei pasti e gli escrementi di discreta dimensione.
Il Capo di SM, mio omologo, era Augusto STACCIOLI, che in quel momento era tornato in Italia ed era sostituito da un Col. di qualche corso più anziano, a cui mi affiancai per un breve periodo. Insieme a quest’ ultimo feci un viaggio con un G222 della nostra aeronautica su tutta l’area di nostro interesse arrivando sino a Belet wen, cittadina al confine con l’Etiopia.
Il viaggio fu un volo radente definito tattico, in pratica seguivamo le anse del fiume: il Welishebeli.
Rientrati in patria ci preparammo affinando la nostra preparazione sui risultati della ricognizione.

La mia avventura somala cominciò il 28 agosto del ‘93, con un volo notturno Alitalia su un Aerbus 300, insieme a quasi tutto il Comando Brigata e parte del Reparto Comando. Dopo uno scalo tecnico in Arabia Saudita, dove saliva un equipaggio volontario(si andava in zona a rischio), arrivammo all’aeroporto di Mogadiscio a metà mattinata. Non è facile descrivere la sensazione dall’alto guardando dal finestrino dell’aereo si vedeva l’aeroporto.
Strutture murarie fatiscenti e sabbiose si alternavano a vesciconi enormi di carburante, a velivoli di ogni tipo, a moderni ospedali da campo sotto tende pneumatiche. In un’area separata una moltitudine di “Black Hock” allineati e protetti da muri di sacchetti a terra dal tiro dei mortai o RPG, davano un senso di potenza a cui non ero abituato.
A terra l’organizzazione logistica era perfetta. Muletti di carico provvedevano a scaricare e a sistemare il materiale. L’aeroporto era gestito, in toto, dal Comando USA, sia nel controllo aereo sia per il sostegno logistico.

Arrivai qualche giorno prima del cambio di responsabilità e c’era, questa volta ad attendermi, il “cappellone” Augusto STACCIOLI. Avrebbe dovuto passarmi le consegne, ma gli avvenimenti si susseguivano con tale rapidità che alla fine si limitò a passarmi un giubbetto anti schegge ed una bomba a mano difensiva “estremo atto” del Capo di Stato Maggiore della Brigata Italiana ad UNOSOM 2, nel caso di cattura…..(a suo dire!).
Qui mi fermo perché molti altri hanno scritto, sicuramente meglio e di più; ci sono dei siti su internet che trattano ampiamente la missione italiana nel Corno d’Africa, mi preme solo dire che a parte i risultati politici, è stato sicuramente una dimostrazione di quanto sia valida la nostra logistica. Abbiamo operato a 7000 Km. dalla madre patria e non ci è mancato mai nulla. Certe sere mangiavamo anche il gelato, di marca italiana.
Questo ritengo sia il risultato di maggior soddisfazione per l’ Esercito Italiano.

Voglio solo ricordare che i nostri trasmettitori, capeggiati da Gigi PELLEGRINO, avevano realizzato dei collegamenti mai visti prima di allora! Si parlava tranquillamente per radio con Beletwen, a circa 400 Km. e con il telefono militare “sotrin” con la madre Patria.
Molti somali parlano ancora la nostra lingua, sono i più anziani e gli Ufficiali che hanno studiato in Accademia a Modena.

Ho chiesto subito della sorte dei nostri colleghi somali: Iusuf Ali Nur, del mio plotone, era morto in Ogaden, un po’ di anni prima. Gli unici ritrovati erano due cappelloni, compagni di corso di Staccioli, che a dire la verità non ricordavo, ma che mi hanno accolto con affetto fraterno. Sembrava che ci fossimo visti sin al giorno prima.
Un altro l’ ho incontrato ad ITALA, paese fondato si capisce da chi, a nord di Mogadiscio. E’ un compagno di corso di Enrico CEMENTANO, allora C.te del Rgt paracadutista di stanza a Balad, quindi 21° Corso.
L’ Operazione “IBIS 2” si concluse il 20 marzo 1994. Il rientro fu purtroppo funestato dalla morte di due giornalisti della RAI caduti sotto il fuoco di una delle tante bande armate che flagellano il Paese.
Il prezzo pagato è stato alto e il nostro rientro è stato duro; ricordo ancora gli occhi di un “Cappellone” somalo, mutilato ad una gamba su uno dei tanti campi di battaglia di quella terra insanguinata.
I suoi occhi nel silenzio dei saluti esprimevano tutta l’amarezza e la delusione di un popolo abbandonato al proprio destino.
"Ma noi siamo soldati e il nostro compito è quello di fare al meglio ciò che ci viene ordinato di fare".
(Geppe Muto)
A monte Romano, rimpatriata con il Gen. Fiore

mercoledì 4 febbraio 2009

GAZA – Riflessioni di un profano



Semmai ce ne fosse stato bisogno, i recenti, dolorosi avvenimenti hanno di nuovo catapultato il drammatico problema della Striscia di Gaza sulla scena internazionale, evidenziandone le contraddizioni di fondo che, nonostante i tanti tentativi diplomatici o pseudo tali, si ripresentano ogni volta sempre più inestricabili.
Quanto segue –inevitabilmente conciso sia per la complessità dell’argomento che per il poco spazio disponibile- tenta di inquadrare il “ problema Striscia di Gaza” nel “macro problema palestinese”, senza voler azzardare giudizi di nessuna natura su chi siano i buoni e chi i cattivi.
Non vi è dubbio che la situazione attuale sia il frutto di decenni di equivoci derivanti dalle interpretazioni di comodo delle parti in causa (locali e non), tutte tendenti a portare acqua al proprio mulino: con le buone, con le cattive, grazie a connivenze internazionali più o meno palesi ed anche con tanto danaro. Equivoci che hanno origine nei lontani anni ’20 quando la Società delle Nazioni (sciagurata ed inutile antenata dell’ancor più sciagurata ed inutile ONU), per legittimare in qualche modo le mire di Francia e Gran Bretagna su una Regione divenuta ancor più strategica con l’apertura del Canale di Suez, “si inventò” i Mandati per le due Potenze, allo scopo di educare alla “democrazia liberale” le popolazioni del disciolto Impero Ottomano.
Non c’è che dire: l’afflato educativo è un vero e proprio “pallino” delle Potenze dominanti del momento per giustificare i loro interventi manu militari negli affari interni di altri Stati, specie se hanno rilevanza strategica!
Se a questo equivoco diciamo così internazionale si aggiunge quello derivante dal combinato-disposto dell’intenzione britannica di creare un focolare nazionale ebraico che non ledesse però i diritti civili e religiosi delle popolazioni non-ebraiche della Palestina, si ha l’esatta dimensione del perché la cosiddetta “questione palestinese”, lungi dall’essere risolta, si è vieppiù ingarbugliata nel tempo, quasi con una progressione geometrica.
Gli equivoci, si sa, generano ambiguità specie quando queste possono essere strumentali a giustificare i propri comportamenti. E mi spiego meglio, esaminando il concetto di occupazione che il Diritto Internazionale definisce come “presenza di FA straniere all’interno del territorio di uno Stato in una misura preponderante rispetto a quella delle FA dello Stato occupato”.... ma la Striscia non è riconosciuta internazionalmente come uno Stato : è solo proclamata dall’ANP come parte dei “Territori palestinesi”, né tantomeno ha FA regolari! per cui in teoria potrebbe essere valida la tesi israeliana che, nella Striscia, si effettuano solo operazioni di “polizia armata” contro i terroristi di Hamas. In pratica però, quando le truppe israeliane si ritirano, cessa sì l’occupazione da definizione ma si concreta e perpetua sotto un’altra forma molto più stringente e mortificante: la chiusura dei valichi, il controllo delle coste, l’approvvigionamento di ogni bene, compreso quello supremo dell’acqua. In sintesi, l’occupazione “classica” ha una durata molto limitata nel tempo e nello spazio (anche perché molto onerosa), così si evita di rimettere in moto il balletto delle “preoccupazioni” della “Comunità Internazionale” ma, nel contempo, si tiene sotto controllo l’intera popolazione mediante l’imposizione di una totale dipendenza dai voleri israeliani.

Il terzo ed ultimo esempio lampante della spirale perversa tra equivoci ed ambiguità concerne la tesi che il popolo palestinese sia un tutt’uno omogeneo e granitico, che obbedisce ad un solo capo e che sia un bell’esempio di purezza. In effetti le cose non stanno proprio così; forse, quando Arafat dette vita all’OLP ed inizio all’ondata di atti terroristici (però, gli fu conferito il Premio Nobel “per la pace” nel 1994!) si poteva millantare per unitaria una popolazione affamata, bistrattata, sempre in fuga o più semplicemente eliminata. Da diversi anni a questa parte, non più, soprattutto da quando l’ingente flusso di danaro che arriva sotto forma di “aiuto” si è tramutato in un potentissimo strumento di corruzione in mano a pochi notabili. In pratica, il “popolo palestinese” vive (si fa per dire!) costantemente sotto un duplice ricatto: quello israeliano fatto di divieti, imposizioni, restrizioni ed anche di cannonate se necessario e quello interno dei suoi “capi” che ne condizionano lo sviluppo, impiegando nel modo peggiore l’enorme flusso degli aiuti internazionali. Se ciò non bastasse, nella Striscia Hamas ne ha aggiunto anche un altro: quello di farsi scudo della popolazione per mascherare le proprie azioni terroristiche.
Non è proprio un bel vivere, diciamo la verità!
A tutto ciò, bisogna aggiungere anche i tentativi della diplomazia internazionale tanto maldestri quanto inutilmente dannosi che sono culminati nell’esperimento di includere politicamente i fondamentalisti islamici di Hamas (vittorioso poi alle elezioni) nella dialettica democratica palestinese; esperimento miseramente fallito e che si è tradotto in un’ ulteriore divisione nel campo palestinese, all’interno del quale appare quasi impossibile il solo pensare alla creazione di uno Stato indipendente.
In definitiva, la recente tragedia nella Striscia di Gaza deve essere letta come una ulteriore, inevitabile tessera di quel mosaico mediorientale, intreccio di interessi giganteschi delle Potenze mondiali e regionali che non sembra abbiano alcuna volontà concreta di giungere ad una soluzione, a meno che non si ricominci daccapo cambiando completamente l’approccio.
Perché questo nuovo approccio abbia qualche probabilità di successo, vorrei ricordare le conclusioni cui pervenne l’UNSCOP (United Nation Special Committee on Palestine) creato nel quadro del “piano di partizione della Palestina” nel 1947: “E’ stato pertanto relativamente facile concludere che, finché entrambi i gruppi manterranno costanti le loro richieste, è manifestamente impossibile in queste circostanze soddisfare interamente le richieste di entrambi i gruppi, mentre è indifendibile una scelta che accettasse la totalità di un gruppo a spese dell’altro”.
(Et.Ma)