giovedì 26 febbraio 2009
Un "Sassarino" racconta di suo nonno "Sassarino"
Non è un’ esperienza vissuta nella mia vita in grigioverde; è il racconto di come mio nonno Simone è morto a Monte Zebio. Era un “sassarino” , come moltissimi sardi. Era un eroe sconosciuto, come tanti. Nei racconti di mio padre traspariva l’orgoglio per il sangue versato da nonno Simone più che il rammarico per la pesante eredità di una vita da orfano a 4 anni lasciatagli dal destino. Mi sono chiesto tante volte dove i nostri soldati trovassero la forza e la convinzione di offrire le loro vite per una causa che era forse lontana dai loro sentimenti. I sardi erano più sardi che italiani. L’Italia però era fatta di fratelli da liberare dal giogo straniero …. Senza enfasi, senza troppe parole, come nel nostro modo di essere, se una cosa deve essere fatta la facciamo. E basta. Forse non ancora non so dove i tanti eroi senza medaglia abbiano attinto quella generosità, quella abnegazione che li ha spinti a offrire le loro vite …
Gente semplice della Brigata “Sassari” : eroi senza medaglia.
Bonorva era lontana tre giorni e tre notti di tradotta e di nave.
Bonorva: un dedalo di vicoli intorno a via Muristene, in cima alla quale domina la chiesa di Santa Vittoria. Le case sono tutte basse, incollate l’una all’altra e spesso flagellate dalla tramontana e dalla pioggia che pero’ non riescono a cancellare il profumo stagnante di pane e di farina.
Dal campanile di Santa Vittoria si domina tutta la campagna di Bonorva: dalla fontana di Manielle a Campugiavesu, dalla piana di Santa Lucia alle asperità di Su Monte.
In quel villaggio, in quelle case di pietra bianca, le famiglie vivono al centro di un mondo dai confini visibili: le greggi a Santa Lucia o, nella transumanza, a Su Monte, i campi di grano duro a Campugiavesu.
L’invisibile, l’infinito, il trascendente, la Provvidenza è a Santa Vittoria, dove tutti i giorni anziane donne, in un misto di sardo e latino, recitano il Santo Rosario e dove tutte le domeniche anche gli uomini e i bambini ascoltano le parole di speranza del parroco che invoca la luce del Signore perché discenda, buon popolo di buoni pastori, sui Bonorvesi. E dopo la S. Messa finalmente i bambini, cavalcando cavalli fatti con le canne, sciamano per lo stradone fino alla fontana di Manielle, improbabili eroi di un leggendario e sconosciuto Far West. E’ il solo giorno della settimana in cui loro, bambini, possono ritornare alla fantasia della loro età e dimenticare il lavoro dei campi e dietro le greggi, intrapreso a sei anni.
Forse il fante Simone Faedda pensava a Bonorva quella notte del 10 giugno 1917, alle pendici del Monte Zebio, dove in piedi dentro il trincerone, in mezzo al fango svolgeva il suo turno di sentinella.
Quello appena trascorso era stato un giorno particolarmente duro. Il suo Battaglione avrebbe dovuto occupare Monte Zebio. In quel tratto di duecento metri che separava le due linee, il fuoco delle mitragliatrici austriache era stato micidiale ed inutili i tentativi dei Sassarini di superare i reticolati davanti alle loro trincee.
L’ordine era stato di avanzare a qualunque costo e per tutta la giornata era stato un susseguirsi di attacchi e contrattacchi. Senza esiti.
E cosi’ era finita la giornata. Una pioggerella lenta e noiosa scendeva sul triste campo di Monte Zebio, accompagnando il turno di guardia di Simone e ammantandolo di solitudine e pensieri.
Il fante Simone Faedda era un veterano, in tutti i sensi: classe 1880, aveva 35 anni quando, nel 1915, lo avevano richiamato alle armi, perché era iniziata la guerra. Aveva lasciato a casa tre figli piccoli ed una moglie incinta di cinque mesi. Aveva affidato le sue pecore, una cinquantina, e la terra seminata a grano ad un vecchio zio che poteva fare affidamento su Giomaria, il figlio maggiore di Simone, un esperto ometto di quasi otto anni.
Non era stato molto felice, Simone, di partire per la guerra. Ma un Ufficiale della Brigata “Sassari”, dove era stato assegnato, gli aveva spiegato che Bonorva era soltanto un piccolo punto della Sardegna che, a sua volta, era soltanto una piccola parte dell’Italia: la Patria. Sicuramente Simone non sapeva esattamente come si scrivesse la parola Patria, ma aveva capito che altri uomini, italiani come lui, dovevano essere liberati dallo “straniero”. Forse intuì, e sicuramente si convinse che questo doveva essere fatto.
Erano stati da allora due anni di fatica, di sudore, di gelo, di pioggia e di sole caldissimo. Quasi sempre in trincea.
Non solo quel 10 giugno 1917, ma chissà quante volte il fante Simone Faedda, classe 1880, aveva pensato a Bonorva dove, in quegli angusti confini, c’era tutto il suo mondo: Annamaria, sua moglie, che forse ancora allattava Salvatore, che lui presto avrebbe finalmente conosciuto, c’erano Giomaria, AntonioMaria e Francesco, c’era la casa bianca con il profumo di farina e di pane, c’era il gregge ed il campo di grano.
Arrivava l’alba: i primi raggi di luce faticavano ad insinuarsi attraverso quella fitta pioggerella, mentre la terra umida di Monte Zebio gli scaricava brividi di freddo su tutto il corpo.
“Oggi ce la faremo a superare questi pochi metri, come a Bosco Cappuccio, battesimo di fuoco, come a Castelgomberto, come sempre hanno fatto i “Sassarini”. Fra poco tutta la compagnia sarà qui e accompagnati dall’artiglieria partiremo all’assalto... e poi, finalmente forse potrò andare in licenza ”.
Forse pensava questo, Simone, quando due lampi improvvisi squarciarono l’aria, seguiti da due granate che con rumore sordo caddero nella trincea.
Dalle baracche uscirono tutti di corsa, il caporale Agostino De Roma per primo. E mentre correva verso il trincerone chiamava Simone, senza sentire risposta. Agostino era legato a Simone da sincera amicizia fin dal giorno del richiamo: stessa classe di leva, stesso reggimento, battaglione, compagnia, plotone. Stessi pensieri: anche lui aveva lasciato in Sardegna la moglie e quattro figli, il suo campo coltivato a grano ed il suo gregge a pascolare nella sterminata piana della Nurra.
Ma la Nurra non e’ che un piccolo punto della Sardegna
che, a sua volta, e’ solo un piccolo pezzo d’Italia: la Patria.
E Agostino De Roma piangeva mentre stringeva a se’ Simone, ma le sue lacrime non avrebbero più potuto scaldare il corpo dilaniato di Simone.
Qualche giorno dopo a Bonorva le campane suonarono i rintocchi di morte, dando ad Annamaria un triste presagio che diventò certezza quando i Carabinieri bussarono alla sua porta, in uno stretto vicolo nei pressi di via Muristene, in cima alla quale la chiesa di Santa Vittoria domina tutto il villaggio.
(PFF)
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Dopo l`Accademia ho concluso i miei 3 anni di servizio militare a Trieste nel 151 reggimento fanteria Sassari. Sono orgoglioso di aver potuto fare parte di questo reparto meraviglioso ove ho avuto l`occasione di conoscere gente straordinaria, che ho amato ed amo con tutto il cuore. FORZA PARIS
RispondiEliminaFederico Ozzola