Ricordi della mia esperienza in Somalia
Il 6 settembre 1993 la Brigata Paracadutisti “FOLGORE” venne avvicendata dalla Brigata Meccanizzata “LEGNANO” che assunse il comando del contingente “ITALFOR IBIS 2” nell’ambito dell’Operazione UNOSOM II “Continue hope” in Somalia.
A fine giugno ero già andato a Mogadiscio, pochi giorni prima dell’attacco al Check point “PASTA”, dove caddero tre paracadutisti e ne rimasero feriti una ventina di cui alcuni in modo molto grave, vedi S.Ten. PAGLIA.
Ero andato in ricognizione con un gruppo di Ufficiali dello Stato Maggiore della Brigata e dei Reparti dipendenti, futuri protagonisti della missione.
Era una esperienza esaltante per un Ufficiale che per tutta la vita si era preparato per un tale evento.
Alla partenza da Pisa, sullo stesso aereo, trovai il Cappellano militare che aveva celebrato il mio matrimonio. Grandi feste e tanti ricordi fecero trascorrere veloce l’avvicinamento a Mogadiscio.
L’arrivo fu un po’ traumatico: dall’alto, l’aeroporto, sulle sponde dell’Oceano Indiano, pieno di mezzi, elicotteri e vesciconi enormi di carburante sembrava la scena di un film. A terra, ricordo l’aria calda che ci investì, piena di odori pungenti ed una certa situazione di disagio, dovuta, forse, al passaggio rapido dalla cabina climatizzata dell’ A 300 ai 40° gradi polverosi.
La città pullulava di gente e le prime immagini che ricordo sono i nostri posti di controllo, disseminati nelle vie della città, e un enorme camion dal cui cassone partivano in successione, lanciate da un somalo, bottiglie in plastica d’acqua, (aiuti umanitari) bottiglie che spesso cadevano a terra scoppiando tra l’ilarità del tiratore e la rabbia dei passanti.
L’ambasciata italiana, riconquistata dai paracadutisti al primo arrivo a Mogadiscio, ci accolse come un fortino del Far West, sulle cui mura perimetrali erano sistemate coppie di tiratori a difesa.
All’interno erano ospitati:
- il Comando Brigata, una parte del Reparto Comando,
- gli incursori del “Col Moschin”,
- inservienti somali e traduttori.
Sotto un albero, in divisa, con la sua tendina da campo, con il suo vecchio moschetto 91, stazionava un vecchio ascaro, che al passaggio di Ufficiali accennava un saluto militare.
Poco lontano la tenda briefing, utilizzata solo in occasione delle visite, per la verità rare, era occupata da una grossa tartaruga che l’aveva presa come sua dimora. In caso di utilizzo della tenda la prima preoccupazione era portarla in altro luogo ed eliminare i resti dei pasti e gli escrementi di discreta dimensione.
Il Capo di SM, mio omologo, era Augusto STACCIOLI, che in quel momento era tornato in Italia ed era sostituito da un Col. di qualche corso più anziano, a cui mi affiancai per un breve periodo. Insieme a quest’ ultimo feci un viaggio con un G222 della nostra aeronautica su tutta l’area di nostro interesse arrivando sino a Belet wen, cittadina al confine con l’Etiopia.
Il viaggio fu un volo radente definito tattico, in pratica seguivamo le anse del fiume: il Welishebeli.
Rientrati in patria ci preparammo affinando la nostra preparazione sui risultati della ricognizione.
La mia avventura somala cominciò il 28 agosto del ‘93, con un volo notturno Alitalia su un Aerbus 300, insieme a quasi tutto il Comando Brigata e parte del Reparto Comando. Dopo uno scalo tecnico in Arabia Saudita, dove saliva un equipaggio volontario(si andava in zona a rischio), arrivammo all’aeroporto di Mogadiscio a metà mattinata. Non è facile descrivere la sensazione dall’alto guardando dal finestrino dell’aereo si vedeva l’aeroporto.
Strutture murarie fatiscenti e sabbiose si alternavano a vesciconi enormi di carburante, a velivoli di ogni tipo, a moderni ospedali da campo sotto tende pneumatiche. In un’area separata una moltitudine di “Black Hock” allineati e protetti da muri di sacchetti a terra dal tiro dei mortai o RPG, davano un senso di potenza a cui non ero abituato.
A terra l’organizzazione logistica era perfetta. Muletti di carico provvedevano a scaricare e a sistemare il materiale. L’aeroporto era gestito, in toto, dal Comando USA, sia nel controllo aereo sia per il sostegno logistico.
Arrivai qualche giorno prima del cambio di responsabilità e c’era, questa volta ad attendermi, il “cappellone” Augusto STACCIOLI. Avrebbe dovuto passarmi le consegne, ma gli avvenimenti si susseguivano con tale rapidità che alla fine si limitò a passarmi un giubbetto anti schegge ed una bomba a mano difensiva “estremo atto” del Capo di Stato Maggiore della Brigata Italiana ad UNOSOM 2, nel caso di cattura…..(a suo dire!).
Qui mi fermo perché molti altri hanno scritto, sicuramente meglio e di più; ci sono dei siti su internet che trattano ampiamente la missione italiana nel Corno d’Africa, mi preme solo dire che a parte i risultati politici, è stato sicuramente una dimostrazione di quanto sia valida la nostra logistica. Abbiamo operato a 7000 Km. dalla madre patria e non ci è mancato mai nulla. Certe sere mangiavamo anche il gelato, di marca italiana.
Questo ritengo sia il risultato di maggior soddisfazione per l’ Esercito Italiano.
Voglio solo ricordare che i nostri trasmettitori, capeggiati da Gigi PELLEGRINO, avevano realizzato dei collegamenti mai visti prima di allora! Si parlava tranquillamente per radio con Beletwen, a circa 400 Km. e con il telefono militare “sotrin” con la madre Patria.
Molti somali parlano ancora la nostra lingua, sono i più anziani e gli Ufficiali che hanno studiato in Accademia a Modena.
Ho chiesto subito della sorte dei nostri colleghi somali: Iusuf Ali Nur, del mio plotone, era morto in Ogaden, un po’ di anni prima. Gli unici ritrovati erano due cappelloni, compagni di corso di Staccioli, che a dire la verità non ricordavo, ma che mi hanno accolto con affetto fraterno. Sembrava che ci fossimo visti sin al giorno prima.
Un altro l’ ho incontrato ad ITALA, paese fondato si capisce da chi, a nord di Mogadiscio. E’ un compagno di corso di Enrico CEMENTANO, allora C.te del Rgt paracadutista di stanza a Balad, quindi 21° Corso.
L’ Operazione “IBIS 2” si concluse il 20 marzo 1994. Il rientro fu purtroppo funestato dalla morte di due giornalisti della RAI caduti sotto il fuoco di una delle tante bande armate che flagellano il Paese.
Il prezzo pagato è stato alto e il nostro rientro è stato duro; ricordo ancora gli occhi di un “Cappellone” somalo, mutilato ad una gamba su uno dei tanti campi di battaglia di quella terra insanguinata.
I suoi occhi nel silenzio dei saluti esprimevano tutta l’amarezza e la delusione di un popolo abbandonato al proprio destino.
"Ma noi siamo soldati e il nostro compito è quello di fare al meglio ciò che ci viene ordinato di fare".
(Geppe Muto)
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