Alcune riflessioni su due eventi bellici recentemente verificatisi in Afghanistan .
Il primo è l’uccisione involontaria di una ragazza da parte di una pattuglia italiana e il secondo il bombardamento di un villaggio da parte delle forze aeree americane.
Prima di scrivere queste poche righe volevo conoscere qualche particolare in più sui due eventi ma non ne ho trovati per cui mi serviranno solo da spunto per osservazioni di carattere generale.
I commenti dei media e dei politici, non al governo, mi confermano come queste due categorie non siano in grado o non vogliano, comprendere il contesto in cui questi eventi si verificano. Sparare ad un ladro al centro di Milano o ad un presunto terrorista in una delle zone più “calde” dell’Afghanistan per loro fa lo stesso. C’è qualcuno che sta valutando se i fori sulla macchina civile che conteneva la ragazza uccisa fossero sul davanti o sul didietro per vedere se le Regole d’Ingaggio (ROE) siano state rispettate alla lettera oppure no. Purtroppo anche qualche collega con le stellette, che il massimo di operatività l’ha espressa redigendo le “Consegne per la guardia alla caserma”, sembra allinearsi a questo atteggiamento. Qualche altro politico si è permesso di affermare che ad un soldato addestrato non è permesso aver paura.
Tutti dimenticano il contesto non avendolo sperimentato.
Il contesto è questo: un convoglio che si muove in una notte scura come la pece, pioggia battente, visibilità quasi zero. La zona è tra le più pericolose al mondo. Soldati sono morti o sono stati mutilati da autovetture fatte saltare dal solito fanatico, suicida per poter scopare un po’ di “huri” nel paradiso di Allah. La macchina usata è quasi sempre la stessa, di tipo molto comune. Prima della partenza un bollettino dell’ intelligence preannuncia un attacco alle forze italiane in quell’area con quel tipo di macchina. E lui, in quella notte oscura, con la pioggia che gli sferza la faccia, è teso come una corda di violino, il dito sul grilletto, lo stomaco contratto, stanco, infreddolito e nervoso: la sua vita e quella dei suoi compagni stanno nella prontezza con cui userà la sua mitragliatrice.
Ed ecco nella notte sbuca una macchina del tipo di quella descritta dall’intelligence, è veloce, gli viene contro, l’adrenalina pompa il sangue nelle vene, il cuore impazzisce. Vengono fatti i segnali di avvertimento previsti dalle ROE , che io non conosco ma la macchina non si ferma, è a pochi metri, sta per superare la linea virtuale di sicurezza che può voler dire vita o morte e parte la raffica. Muore una ragazza. Questo il contesto. Non faccio commenti. A chi fa certe valutazioni superficiali dico solo: immagina che quel mitragliere sia tuo figlio.
Diverso è il caso del bombardamento. E’ prassi consolidata per i guerriglieri mussulmani farsi scudo di donne e bambini. Considerano pochissimo la propria vita, figuriamoci quella degli altri. Se si vogliono combattere bisogna dare per scontato che vi saranno “vittime collaterali”. La guerra non ha moralità. La guerra è quanto di più schifoso l’uomo abbia inventato. La guerra o si vince o si perde o non si fa. Criteri buonisti verso chi fa strame del diritto bellico e della semplice pietà sono inconcepibili se si vuol vincere ma in questo caso ritengo che la valutazione debba essere puramente machiavellica, opportunista.
La domanda da porsi non è se è morale ammazzare civili innocenti, ché la morale del tempo di pace direbbe sicuramente di no. La domanda deve essere questa : uccidere quella trentina di talebani nascosti nel villaggio e con essi un centinaio di civili innocenti, era di tale importanza da bilanciare il biasimo mondiale, la diminuzione del sostegno alla guerra da parte dell’opinione pubblica statunitense, l’odio della popolazione, la dura reazione del governo legittimo, la sgomenta perplessità degli alleati? Se la risposta è “si” allora quelle povere vittime non sono morte invano e il bombardamento era lecito; se la risposta è no va condannata senza remissione la stupidità di chi quel bombardamento ha consentito o di chi ha creato un ambiente tale da permettere il verificarsi di tali infamie. Attenzione: Infamie non secondo la valutazione della morale corrente ma infamie in quanto assolutamente deleterie al fine della vittoria.
E’ cinismo il mio? Forse , ma sarei più portato a chiamarlo realismo se le guerre si vogliono vincere. Altrimenti, e per me questa sarebbe la soluzione migliore, la gravitazione dello sforzo andrebbe applicato nel sostegno sostanziale e “a tappeto” della popolazione e non negli aspetti puramente militari, ma questa è un’ altra storia.
Luigi Chiavarelli
23 maggio 2009.
RIFLESSIONI AFGHANE 2
(Risposta, parziale, a Francesco Miredi)
Caro Franco,
le tue osservazioni in merito all’uccisione della ragazza afghana sono corrette ma non conoscendo l’esatta dinamica degli eventi non posso pronunciarmi con sicurezza sull’innocenza o sulla colpevolezza del soldato italiano che ha sparato.
La riflessione che volevo stimolare era di carattere generale e relativa al contesto in cui si sono svolti i fatti che, con buona pace dei nostri politici, è un contesto bellico perciò gli eventi non possono essere valutati con gli stessi parametri usati in territorio nazionale od in tempo di pace.
Il criterio di valutazione deve essere diverso ed i margini concessi all’errore molto più ampi. A mio avviso i motivi ci sono e non sono pochi. Per il delinquente comune, le forze di polizia divengono “nemico” al momento dell’indagine o dell’arresto, mentre in guerra il nemico è potenzialmente sempre presente, cerca il soldato avversario per distruggerlo usando le armi più disparate, a prescindere dall’atteggiamento da questi tenuto. Né è da trascurare il fatto che, mentre il poliziotto e il carabiniere, a fine turno vanno a casa dai loro affetti e “staccano” per diverse ore, non così succede al soldato in Teatro Operativo, dove la minaccia è costante, anche dentro le basi e il disagio fisico e la tensione durano per mesi.
Se ammettiamo che tutti gli eventi, tutte le decisioni dei Comandanti, tutti i comportamenti dei soldati possano essere valutati dalla magistratura come se fossimo in Patria, rischiamo di paralizzare ogni iniziativa e di indurre le unità a non uscire più dalle basi.
Inoltre, per i soldati italiani sussiste una situazione del tutto particolare. Il rischio è elevato e a fronte di combattimenti quasi quotidiani, ben poco trapela a meno che non ci scappi il morto. Si può immaginare quindi con quale spirito affrontano il rischio i nostri soldati, a cui mancano totalmente il riconoscimento delle loro azioni, la conoscenza in Patria degli eroismi compiuti (e ce ne sono!), l’appoggio morale del proprio popolo che li crede intenti solo a distribuire latte e pasticcini e devono scontrarsi con una cultura che ha ormai abbandonato il concetto di eroismo, onore militare, dovere. In più ora potrebbe aggiungersi l’intervento della magistratura. Mortificante, assolutamente mortificante!
In realtà, il vero problema sta nell’impostazione generale di questo tipo di operazioni, tutta tesa non a sconfiggere il nemico, ma ad evitare reazioni negative dell’opinione pubblica e a non mettere in imbarazzo i governi: ecco perché sono state inventate le famigerate Regole d’Ingaggio!
Ai nostri politici non interessa affatto l’andamento della situazione operativa, per loro l’importante è che i nostri soldati ci siano e possano così dare peso alla politica estera. Per loro, se restassimo chiusi nelle basi a giocare a briscola andrebbe benissimo. A far le cose serie ci pensino gli Americani ! Per loro che un soldato combatta i talebani o faccia la guardia alla monnezza, è la stessa cosa.
Ovviamente ciò non è possibile se vogliamo conservare un minimo di dignità e, nonostante tutto, i Comandanti, incrociando le dita, cercano comunque di assolvere il compito – spesso molto fumoso e generico - che viene loro affidato. Così i soldati sono obbligati ad esporsi ad un nemico capace ed infido che cerca di ucciderli e cacciarli con ogni mezzo ma, grazie ai lacci imposti in Patria, senza poter adottare quelle tattiche che vengono insegnate ai soldati di tutto il mondo. Mi riferisco, in particolare, allo spirito offensivo che deve caratterizzare le operazioni militari, anche quelle difensive e che ci è stato inculcato fin dai banchi dell’Accademia. “La miglior difesa è l’attacco” si è detto e si dice in tutte le scuole militari. Nel caso in questione, ricercare, prevenire il nemico ed eliminarlo. Ma questo ai nostri soldati non è concesso. Contro ogni regola militare possono solo subire, lasciare sempre e dovunque l’iniziativa all’avversario, far da bersaglio e rispondere al fuoco ma, anche in questo caso, con limitazioni capestro. Tutto ciò oltre ad essere una grande idiozia ai fini dell’assolvimento del compito, espone i soldati ad un rischio elevatissimo nella totale indifferenza di tutti.
Il Diritto Bellico tenta, senza riuscirci, di rendere meno feroce la guerra, ma nel caso considerato non se ne pretende il rispetto da parte del nemico non essendoci, ufficialmente, né il nemico né il “bellum”. Il guerrigliero può tranquillamente confondersi in mezzo alla popolazione, farsi scudo di donne e bambini, far saltare in aria civili innocenti sapendo che, almeno nel settore italiano, sarà trattato come un delinquente qualsiasi. Si tende a considerare le operazioni per il mantenimento/imposizione della pace, come operazioni di polizia internazionale dando il massimo di tutela al nemico e pretendendo dai soldati lo stesso comportamento di un poliziotto che vigila sulle nostre città.
Il confronto è talmente sbilanciato a favore del nemico da apparire scandaloso.
Le conclusioni sono ovvie. Intanto non chiamare più queste operazioni “operazioni di pace” ma, almeno, “operazioni militari per il mantenimento/imposizione della pace”. Sarebbe sempre una patetica foglia di fico per non usare il termine “guerra” e non scandalizzare gli adoratori dell’Art.11 della Costituzione (che però intende tutt’altro, un giorno ne parleremo) ma sarebbe meglio di niente.
Affrontare queste missioni come vere e proprie operazioni belliche dove sia previsto cercare ed eliminare quel nemico che potrebbe limitare od impedire l’assolvimento del compito, prevedendo anche possibili danni collaterali alla popolazione. Questo approccio al problema limiterebbe l’assurda lesina di armamenti, anche pesanti (artiglierie) e impedirebbe il famigerato, assurdo giochetto, inventato in malafede, di suddividere le armi in difensive e offensive fornendo poi, non si sa con quale criterio, solo le prime, perché tanto……siamo in missione di pace.
Infine, se tali condizioni sono ritenute politicamente inaccettabili dai nostri deboli governicchi, starsene a casa e lasciare che altri mandino a morire i propri soldati.
Coloro che ritengono questa soluzione poco dignitosa, chiedano di fare sei mesi sui monti afghani con i nostri soldati: sono certo che cambierebbero idea.
Luigi Chiavarelli
Caro Luigi
RispondiEliminaAmmiro la Tua razionalità, che non considero cinismo, ma, nella fattispecie, non ho ben compreso le Tue valutazioni.
Cominciamo dall’episodio della ragazza. Se i fatti si sono svolti così come da Te descritti, il soldato, con o senza paura, avrebbe dovuto sparare, frontalmente o dal didietro, purché entro i limiti di una distanza uomo/autovettura considerata pericolosa; se così è stato, non è pensabile addebitargli alcuna responsabilità.
Al contrario, se egli ha sparato senza il preventivo invio dei segnali o ad una distanza per la quale lo scoppio dell’autovettura non avrebbe potuto rappresentare un pericolo per sé o per altri, egli ha sbagliato. Se errore vi è stato (l’errore è anche addebitabile a chi lo ha considerato idoneo o lo ha addestrato), questo non può essere giustificato da alcun tipo di condizione ambientale perché ha portato, come conseguenza, la morte di una persona estranea al conflitto; immagina che quella ragazza fosse Tua figlia.
In questo caso la nostra differente valutazione può essere determinata dal diverso vissuto operativo: Tu a comandare soldati verso i quali, probabilmente, Ti sentivi responsabile e protettivo; io a rifuggire da ogni elemento valutativo che non avesse carattere oggettivo e probante perché è possibile difendere al meglio solo se si resta emotivamente estranei alla vicenda.
Diversa è la posizione degli abitanti del villaggio bombardato. Credo che siamo ormai lontani dal tempo in cui bisognava inventarsi pericoli inesistenti per autorizzare una operazione bellica (vedi invasione dell’Iraq) e che realmente in quel villaggio stanziassero guerriglieri o terroristi o talebani armati. I protagonisti di una guerra clandestina possano sperare di raggiungere risultati positivi solo se hanno un aiuto, fattivo od omertoso, da parte della popolazione locale che, così facendo, diventa parte attiva nel conflitto bellico e su queste considerazioni mi piacerebbe sentire il Tuo parere che, per l’esperienza vissuta, avrà senz’altro un peso diverso dal mio. Se così è non si può negare la completa liceità del bombardamento e le valutazioni dei media non dovrebbero avere alcuna rilevanza.
Più difficile appare l’analisi del concetto da Te espresso sulla guerra perché non credo che ad essa si possa dare un attributo sostanziale con relativi valori positivi o negativi. La guerra non è un’invenzione bensì un atteggiamento, un modo di fare innato nell’uomo al fine di prevaricare e soddisfare bisogni che considera essenziali per sé ma che non sono condivisi da altri contendenti. Ciò che può essere oggetto di valutazione sono solo le motivazioni che possono portano alla guerra e queste potrebbero renderla anche moralmente accettabile se riguardassero la difesa di quei diritti personalissimi dell’uomo, oggi generalmente riconosciuti come inviolabili.
Da cristiano rispettoso della dignità di ogni essere umano, ritengo che le vere motivazioni di questa guerra siano amorali perché non difendono alcun principio degno di essere difeso. Questa è una semplice invasione ordinata da una minoranza silenziosa e misconosciuta che vuole mantenere o aumentare una ricchezza spropositata e superflua e che non dà alcuna importanza all’altrui generale sofferenza. A volte però, forse perché appartengo al mondo occidentale, cerco di trovare una giustificazione alla delirante ipocrisia che ci circonda e di convincermi che, forse, il fanatismo religioso e violento di gruppi sempre più numerosi rappresenta, per noi, un reale pericolo di sopravvivenza.
Dopo aver letto le tue riflessioni, ho posto ad un amico di nome Davide Astori, linguista, ricercatore e profondo conoscitore della lingua e del mondo arabo, la seguente domanda: “Perché, fra le tre religioni monoteistiche, esiste una differenza così marcata nel rapporto con lo Stato? Se, sin dai tempi di Giustiniano, il potere politico ha utilizzato la religiosità cattolica per acquisire consensi mentre, nell’organizzazione ebraica, sussiste una netta differenziazione fra il misticismo e l’organizzazione statale, perché nel regno mussulmano i paesi che non sono governati da sacerdoti sono considerati infedeli?” La mia recondita speranza era di sentirmi dire che ciò derivava dagli insegnamenti del Corano per il quale un vero mussulmano non avrebbero mai potuto riconoscere la legittima esistenza di che non fosse credente e praticante. La risposta di Davide è stata, invece, ben diversa. Egli, riprendendo i versetti principali del Corano, mi ha dimostrato che le tre religioni hanno lo stesso identico ceppo e che la diversità non è tanto riscontrabile nei principi riportati nelle scritture quanto nel modo di interpretare queste scritture.
Si ritorna, quindi, all’analisi delle condizioni di vita dell’uomo perché solo questa determina il diverso modo di vedere la stessa cosa e chiudo concordando con Te sulla necessità di un sostegno vero e a tappeto.
Francesco
Giggione, con il suo consueto stile asciutto ed efficace, ci ha detto la sua su due dei tanti tragici episodi che hanno insanguinato (e chissà per quanto tempo ancora?!) le martoriate contrade afgane.
RispondiEliminaSono due episodi da porre sullo stesso piano emotivo, ammesso che si possano stilare graduatorie d’importanza quando c’è di mezzo la Nera Signora: uno o mille, pari sono. Ma sono anche due episodi che devono essere valutati con ottiche diverse, nel senso che mentre il primo lo si può far rientrare in un quadro di applicazione delle “consegne” (o, se preferite, ROE) e quindi difensivo, l’altro è un vero e proprio atto di guerra offensivo portato con l’unico scopo di creare distruzione e, inevitabilmente, morte.
Ora, vorrei parlare solo del primo non tanto e non solo per l’atto in sé, quanto per le logiche correlazioni con un altro episodio analogo che costò la vita al funzionario dei Servizi, Callipari.
In quel caso, se ben ricordate, tutte le più collaudate prefiche nostrane si stracciarono le vesti, puntando il dito contro il cow boy dal grilletto facile che si era messo a sparare all’impazzata contro un’innocente macchina che, ancora più innocentemente, si stava recando in aeroporto percorrendo, però, una via dove vigevano delle consegne che qualcuno doveva pur far rispettare. Non devo essere certo io a difendere o a condannare quel soldato che aveva adempiuto al suo dovere; però, ora quel soldato indossa l’uniforme del nostro Esercito ed a sparato in adempienza alle nostre ROE e non a quelle di chissà quale altro esercito, peggio ancora se americano.
Eppure, in questo tragico caso, le prefiche di cui sopra hanno taciuto ed hanno risparmiato pure qualche veste, in attesa della prossima occasione in cui sarà coinvolto qualche altro povero yankee. Allora ce ne fregammo delle scuse ufficiali delle Autorità statunitensi; allora irridemmo alla serietà della giustizia di quel Paese; allora i media ci inondarono per settimane di servizi che grondavano giusto dolore (ipocritamente, anche da parte di coloro che, quel genere di funzionari, lo aveva sempre criminalizzato ed additato al pubblico ludibrio) e altrettanto ignorante disapprovazione. Ora, invece, dopo le scarne notizie, dopo un paio di giorni: il silenzio.
No ragazzi, non credo che questo sia il modo corretto di comportarsi, assumendo atteggiamenti diametralmente opposti nei confronti di casi tremendamente e tragicamente uguali; ripeto uguali e non solo simili.
Attenzione, lungi da me l’idea di mettere sotto i riflettori il nostro soldato! Ha agito come gli era stato comandato di agire e, come ha detto giustamente Giggione, quando ci si trova in determinate situazioni; quando il confine tra la salvaguardia della tua vita e dei tuoi commilitoni che ti hanno affidato la loro e quella di un possibile attentatore è meno che labile; quando in meno di una frazione di secondo devi decidere se fare pressione con l’indice; quando....ebbene sfido chiunque a discriminare tra l’agire in buona fede o no. E smettiamola con il luogo comune che il “soldato addestrato non ha paura”, perché la paura è una reazione derivata dall’istinto di sopravvivenza e può essere al massimo controllata, mai annullata; e chi è addestrato sa controllarla più a lungo ma, raggiunto il limite, prende comunque il sopravvento l’uomo con il suo istinto.
Nessuno dei tanti tuttologi che pontificano su questo e su quello ha avuto il coraggio di fare un parallelismo di tal genere; nessuno dei media ha saputo trovare uno straccio di penna che raccontasse le cose come stavano; nessuno di quei dilettanti che si autodefiniscono “politici” ha portato il suo faccione davanti ad una telecamera per dire “forse avevamo esagerato”; nessuno e basta.
Diciamocela tutta ed in tutta onestà: siamo o meglio, sono dei maestri a vedere la pagliuzza nell’occhio dell’altro, ignorando o facendo finta di ignorare la trave che hanno nel proprio.
Ancora una volta, non ci abbiamo fatto una bella figura, perché ancora una volta ci siamo comportati come quei tifosi ottusi che, a parità di fallo, giudicano da cartellino rosso quello commesso dall’avversario e solo “veniale” quello commesso da un proprio beniamino.
(Ettore)
Carissimo Gigi
RispondiEliminaHo letto con estremo interesse le Tue ultime riflessioni sul caso di specie e sulla guerra che i nostri soldati stanno combattendo rafforzando, ancor più la convinzione, di quanto sia importante saper ascoltare gli altri per poter meglio comprendere ed esprimere un giudizio ponderato. Naturalmente le mie considerazioni sull’operato del soldato si basano solo su elementi teorici e normativi perché non ho mai vissuto una situazione bellica mentre, come Tu dici, in quelle circostanze ogni fatto che, nella normalità, assumerebbe valore di esimente o aggravante, può essere compreso in maniera esatta solo vivendolo.
F: Miredi