ANCORA SULL’ 8 SETTEMBRE 1943
Ho assistito alla 1a giornata del convegno della Vox Militiae del 18 novembre 2008 sul tema “La guerra di Liberazione in Italia: il ruolo dei militari e la Memoria nelle Forze Armate” apprezzando gli interventi, in particolare quello del prof. Dante che considero tra i più approfonditi ed obiettivi.
Tra le varie problematiche sono emerse, a mio avviso, perplessità circa :
1. la scarsa disponibilità di fonti o la loro accessibilità;
2. il ritardo nella memoria della tragedia di Cefalonia ;
3. la scarsa considerazione da parte dei vertici militari alleati delle truppe italiane inquadrate nei
reparti impiegati nella battaglia di Montelungo.
Mi interesso da sempre della Storia della Guerra di Liberazione in quanto mio padre vi partecipò (meritando un Encomio Solenne nel Fronte di Cassino) e perciò ho letto e raccolto molti libri sul tema. Tra questi due mi hanno colpito particolarmente in quanto risalgono a date che li pongono all’avanguardia di quanto si è scritto successivamente.
Nel primo, “Bandiera Bianca a Cefalonia”, edizione Feltrinelli (1963), se i fatti storici ed i nomi dei protagonisti tedeschi sono, come penso, veri allora bisogna riconoscere che se si fosse voluto indagare non avremmo dovuto attendere il famoso “armadio della vergogna” del tribunale militare di Roma per iniziare a ricordare e studiare quella tragica pagina della nostra recente storia.
Fa male dover ammettere che l’opinione pubblica si è interessata ai fatti in occasione della uscita del film “Il mandolino del Capitano Corelli“ che, a mio parere, ricalca, in qualche modo e male, proprio la trama del libro.
Nel secondo, “Roma 1943” di Paolo Monelli, stampato nella libreria del Senato nel febbraio del 1945, l’autore descrive i fatti avvenuti a Roma in particolare il 25 luglio e l’8 settembre del 1943. Quei fatti l’autore li ha vissuti personalmente o ne ha avuto conoscenza diretta e precisa. Quello che mi ha colpito in questo libro, che è una cronaca di avvenimenti con le considerazioni dell’autore, é l’assoluta mancanza di professionalità politica, amministrativa e militare dei vertici del nostro disgraziato paese.
Io non biasimo la “ fuga “ del re ma il modo in cui fu organizzata e condotta. In ogni epoca storica ed anche nella IIa G.M. le famiglie regnanti hanno, in caso di pericolo imminente, spostato la sede del regno per far sopravvivere la dinastia e la nazione. Quello che invece fa ribollire il sangue nelle vene è che a questa fuga si unirono il Capo del Governo ed i vertici dello Stato Maggiore Generale dell’Esercito e chi avrebbe dovuto difendere Roma (Gen. Ambrosio, Gen. Rossi e Gen. Carboni).
Il libro racconta anche della visita segreta, nella notte tra il 6 e il 7 settembre, del Generale americano Taylor (che sarà il Comandante in Vietnam ) venuto a coordinare, con il Gen. Carboni (?) l’imminente sbarco di truppe americane aviotrasportate a Roma per incrementarne la difesa in occasione dell’armistizio già firmato e di prossima diffusione.
Ebbene il Generale americano fu costretto ad annullare l’operazione già in atto con le truppe imbarcate sugli aerei, perché si trovò di fronte delle persone pusillanimi ed incompetenti preoccupate solo della loro incolumità!
E questo fu il motivo per cui l’annuncio dell’armistizio fu diffuso immediatamente dagli Alleati e colse di sorpresa tutti i vertici civili e militari che si giustificarono per questo delle sciagure che ne seguirono: ma se fosse stato annunciato quando se lo aspettavano (quattro o cinque giorni dopo) sarebbe cambiato qualche cosa? Forse si, perché ci sarebbero state almeno due o tre Divisioni tedesche in più in Italia aumentando l’alibi della assoluta impossibilità di qualsiasi difesa.
E così l’8 settembre 43 con un colpo solo l’Italia si attirò l’odio dei Tedeschi e contemporaneamente la diffidenza dei nuovi Alleati. Va anche ricordato che nei giorni seguenti l’armistizio l’Italia, e quindi i suoi soldati, non ebbe una posizione definita nell’ambito del conflitto, cosa di cui approfittarono subito i tedeschi che non riconobbero come combattenti regolari quei militari che, per il proprio singolo eroismo, resistettero da subito. E questo inizio immediato delle azioni di resistenza alle forze tedesche fu provocato dalla consapevolezza errata che la Nazione fosse ancora unita e soprattutto che le sue istituzioni fossero al loro posto a coordinare e dirigere insieme ai Comandanti intermedi. Io credo che l’8 settembre ogni soldato pensasse di avere ancora sopra di sé un Comandante di Reggimento, uno di Divisione, uno d’Armata e così via fino allo Stato Maggiore Generale ed il Governo. Quando si accorse, purtroppo dopo breve tempo che, salvo casi isolati, questa catena di comando e le istituzioni non esistevano più , allora fu il momento delle scelte individuali che a volte furono dettate da coincidenze e dalla posizione geografica in cui ogni singolo si trovava. Ad esempio mio padre si trovava in Puglia con la Divisione Piceno e per lui non vi fu bisogno di scelte perché il suo Reparto transitò gerarchicamente unito nel nuovo Esercito Italiano mantenendo fede al giuramento prestato al Re. Viceversa alcuni suoi amici e colleghi, che si trovavano al Nord, continuarono a combattere contro lo stesso nemico da tre anni e per questo alla fine della guerra furono “discriminati” e poi riabilitati per poi ritrovarsi nuovamente colleghi ed amici nell’ Esercito repubblicano.
A queste voglio aggiungere anche altre due brevi note.
La prima, ritengo che chi ha tratto maggior profitto dall’uscita dell’Italia dall’alleanza con i tedeschi sia stata l’Unione Sovietica che ha visto ridursi il numero delle Divisioni Tedesche impiegate contro l’Armata Rossa sul fronte orientale e penso che non sia improbabile un accordo segreto con Stalin che avrebbe garantito al Re una sorta di tregua politica la cui ratifica fu la svolta di Salerno da parte di Togliatti. E dulcis in fundo vale la pena di ricordare che il Re Vittorio Emanuele III scelse per la sua fuga la stessa via Tiburtina che 83 anni prima suo nonno Vittorio Emanuele II aveva percorso da Pescara a Popoli per recarsi all’Assedio di Gaeta. Che sia la Nemesi storica? E quale esempio di dignità offrì invece Francesco II di Borbone che si trasferì a Gaeta ma che resistette eroicamente, al di là della storiografia ironica che lo circonda, e che, comunque, risparmiò ai suoi sudditi una campagna militare nel capoluogo del Regno che avrebbe causato lutti e distruzioni ancora peggiori di quelli di Gaeta. E’ curioso ricordare che ancora ai primi del ‘900 i Gaetani continuavano a reclamare i danni di guerra che non erano stati ancora risarciti: nulla di nuovo sotto il sole!
A SULMONA UN ESEMPIO DI VERITA’ STORICA.
In occasione della presentazione del saggio “Il Passaggio: Sulmona 1943-1945“ , scritto dall’Architetto Prof. Raffaele Giannantonio, credo che a Sulmona, e forse per la prima volta in Italia, si sia raggiunto il massimo dell’obiettività e della verità storica riguardo agli argomenti che sono oggetto del libro.
Il volume descrive quanto successe in Sulmona negli ultimi anni della II G.M. dopo l’8 settembre 1943 : il “passaggio” dal Fascismo all’occupazione tedesca, dalla Liberazione fino alla nascita della Repubblica. I fatti sono circoscritti alla città ma sono strettamente connessi con i grandi eventi internazionali che caratterizzarono quegli anni.
Questo lo scenario di quanto é avvenuto e che considero un grande esempio di ricerca della verità e di serena valutazione da parte di tutti coloro che sono intervenuti in gran numero.
Al termine del suo approfondito e chiaro intervento, il Prof. Giannatonio ha dato la parola a tre testimoni di quegli eventi ( dei quali non faccio il nome per riservatezza ) : un reduce della gloriosa Brigata Maiella , un cittadino sulmonese di religione Ebraica ed il figlio di un membro del partito fascista assassinato il 1 Maggio 1945 in una cittadina del Nord ove si era recato dopo l’8 settembre 1943.
L’intervento del reduce della Brigata Maiella ha commosso il pubblico per il ricordo di un giovanissimo caduto e per l’assoluta dimostrazione di disinteresse personale e dei grandi ideali che sostenevano la lotta di tutti gli appartenenti alla Brigata. Infatti quei giovani lasciarono la loro terra che, desidero sottolinearlo, era già libera e proseguirono la loro lotta risalendo la penisola combattendo, inquadrati nelle forze regolari .
Questo, a mio avviso, é il migliore esempio della Guerra di Liberazione che fu combattuta con onore fino al 25 aprile del 1945.
Poi è stata la volta del signore di religione ebraica le cui parole hanno colpito me e penso anche altri, come una fucilata per la loro imprevedibile sincerità : quando era bambino e dopo la promulgazione delle infami leggi razziali, nessun fascista ebbe a rivolgere molestie o minacce di alcun tipo ne a lui ne alla sua famiglia. Anzi ricordava che,una volta in cui fu fatto oggetto di percosse ed insulti da parte di alcuni giovani teppisti, intervenne proprio un fascista in divisa (un “gigante” mi sembra che così lo abbia definito) che con modi molto bruschi allontanò gli aggressori e, se non ho capito male, questo signore in divisa era proprio il padre dell’altro testimone di quegli anni che ha parlato subito dopo.
I guai per la sua famiglia cominciarono con l’occupazione tedesca ma con l’aiuto della popolazione locale non mancarono nascondigli e sostegno. Fu una lettera anonima a denunciarli ai tedeschi e, racconta ancora il testimone, la fortuna volle che una parente fosse l’interprete ed il comandate un austriaco che non informò la Gestapo : anche quella volta fu sufficiente cambiare nascondiglio.
Infine ha parlato il figlio di un fascista che, per tenere fede alle sue convinzioni, lasciò moglie e figli ed aderì alla Repubblica di Salò: quanto dolore ma quanta pacata serenità nelle sue parole . Finalmente in pubblico ha potuto raccontare la storia di suo padre che, consegnatosi ai Carabinieri alla fine di aprile del 1945 , fu prelevato con la forza da sedicenti partigiani e ammazzato come un cane al bordo di una strada il 1° maggio. Come già accennato, mi sembra di aver capito che il difensore del giovane ebreo sia stato proprio questo “repubblichino”.
Anche in questo caso, ed inaspettatamente, il pubblico presente ha tributato un applauso alla memoria di quel padre ucciso lontano dalla moglie e dai figli. Il testimone poi ha voluto sottolineare che fu grazie al fatto che sua madre lavorasse all’ospedale che poterono superare ogni avversità anche economica. Ha anche ricordato che alla madre infermiera fu concessa un medaglia d’oro per l’impegno profuso nella cura dei feriti di un bombardamento avvenuto nell’agosto del 1943 a Sulmona.
Non mi aspettavo che queste cose potessero essere dette in pubblico anche alla presenza di autorità provinciali di chiara collocazione politica. E il merito, ritengo, va tutto al Prof. Giannatonio, che ha avuto il coraggio di inserire queste testimonianze autentiche nell’ambito del periodo storico di interesse della pubblicazione.
Un periodo particolarmente difficile di cui tuttora si discute ma che, grazie anche a testimonianze come quelle appena ricordate, appare più chiaro e meno intriso di interpretazioni di parte. Sono testimonianze come queste che rendono sempre meno netta la separazione tra buoni e cattivi ma solamente tra vincitori e vinti.
Ed infine la dott.sa D’Aurelio, organizzatrice dell’evento, ha chiesto ed ottenuto dai presenti un attimo di raccoglimento in onore di tutti i caduti senza distinzione di parte e questa mi è sembrata la degna conclusione di una serata che ritengo faccia onore alla città di Sulmona la cui millenaria storia si arricchisce di questo evento che è degno di essere portato all’attenzione di una platea ancora più ampia di quella che ha avuto la sera del 15 gennaio 2009.
Giovanni Papi