Il nostro quarantennale mi ha permesso di rivedere amici e compagni persi nel tempo e con alcuni ho incominciato a risentirmi telefonicamente. A dire il vero sono sempre io a chiamare e questo dovrebbe indurmi a pensare che forse mi comporto da rompiscatole ma essendo un inguaribile ottimista ed avendo, quale unico scopo, la voglia di salutare chi ricordo con affetto, non mi pongo alcun problema e continuo a farlo, così come continuo a tediarVi con le mie riflessioni.
L’altra sera ho avuto uno di questi colloqui telefonici e, contrariamente alle altre volte, ho chiuso la cornetta con un forte senso di tristezza. Già nel suo tono di voce appariva chiaro uno stato emotivo tutt’altro che sereno ed ho avuto conferma di questo quando alla domanda su dove sarebbe andato in vacanza, mi ha risposto che lui non ama le vacanze perché non ha con chi trascorrerle.
E’ evidente che il nostro amico vive o si sente solo e mi chiedo perché la solitudine debba generare sofferenza.
Seneca diceva che “la solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo”; per Jung “la solitudine è una fonte di guarigione che rende la vita degna di essere vissuta”; secondo Giorgio Gaber “la solitudine non è mica una follia, è indispensabile per star bene in compagnia”, e per Einstein “la solitudine è penosa in gioventù ma deliziosa negli anni della maturità”.
Non so se questi geni, che per definizione sono diversi dalla normalità, abbiano espresso i loro concetti credendo veramente in quello che dicevano o se era un modo per “darsi delle arie” o per dimostrare la loro diversità ma è certo che, per la maggioranza, la solitudine è una gran brutta compagnia.
Alcuni psicologi distinguono la solitudine ricercata e voluta, quindi volontaria, da quella imposta dagli altri attraverso la discriminazione o la plateale mancanza di interesse nei confronti di colui che a loro si rivolge, ritenendo pericolosa solo quest’ultima; la sensazione di non essere importante per nessuno o di essere diverso dagli altri è fonte di numerose depressioni.
Non so voi ma io credo, invece, che la solitudine sia sempre, coscientemente o no, voluta e, il più delle volte, è il risultato di scelte che, per ragioni anche ascrivibili ad altri, si rivelano sbagliate.
La vita di ogni uomo interagisce con una serie di componenti che definiamo amore , amicizia, ideali, ambizione, hobbyes etc. etc. e ad ognuno di questi viene sempre dato un peso o un valore. Questi pesi condizionano tutte le scelte che vivendo l’uomo opera e questi, rinunciando a ciò che ha considerato di minor valore, rischia sempre di trovarsi con interessi limitati che assurgono, così, ad unica sua fonte energetica.
E’ facile immaginare le conseguenze del venir meno, per qualsiasi ragione, di quest’unica fonte; disadattamento rispetto a tutto ciò che ti circonda, totale disistima di se stesso o, al contrario, sublimazione delle proprie capacità sino a manifestazioni schizzofreniche.
Non so se queste mie considerazioni possano essere condivisibili né quale possa essere la soluzione più adeguata per vincere la solitudine; penso, però, che il crearsi alternative e il sentirsi parte sostanziale del mondo che ci circonda, crei un buon sistema difensivo.
Francesco
Risponde Ettore
Carissimo Francesco,
ho atteso un po’ prima di dire la mia sulle Tue riflessioni perché quelle sulla solitudine, oltre ad essere improntate alla consueta lucidità, attengono ad un dominio così profondo, così personale, così intimo che non può essere affrontato con leggerezza e superficialità.
Ci proverò, quindi, sforzandomi di farTi capire perché io non mi sono mai sentito e non mi sento solo.
Già la solitudine, questo male subdolo che affligge l’uomo da sempre, tant’è che, per non far sentir solo l’uomo, Dio gli mise a fianco la donna, creando di fatto le condizioni della sua infelicità terrena. Scherzi a parte, io non credo che la solitudine sia una categoria “fisica”, bensì che inerisca alla sfera puramente spirituale, quella più intima dove gli ammessi sono ben pochi, fino a ridursi solo a se stessi: al proprio ego, che è quanto di più esclusivo e complesso di ogni essere umano. E Tu mi insegni che la soddisfazione dell’ego è un continuo divenire, un continuo alternarsi di soddisfazioni e di sconfitte che contribuisce alla formazione del carattere ed alla convinzione di essere “felici”.
Ma c’è una cosa che secondo me prescinde da questa altalena di alti e bassi e questo qualcosa è la propria intimità.
Richard Bach sosteneva che “l’opposto della solitudine non è stare insieme: è stare in intimità”. E cosa c’è di più “intimo” di se stessi, del proprio cuore, della propria mente, della propria anima; territori questi in cui si racchiude e si esalta l’essenza più vera ed inviolabile di ogni essere umano. Il concetto stesso di “intimità” è, a mio avviso, in rapporto biunivoco con quello di “solitudine”, dato che si è “intimi” prima con se stessi e poi con una esigua parte del proprio prossimo che, in rapporto all’immensità dell’umanità, è decisamente infinitesimale. Quindi, ci si può sentire “soli” anche al Maracanà o, al contrario, assolutamente appagati come l’anacoreta che vive nella contrada più sperduta del mondo. D’altronde, anche Clarles Baudelaire (che non era proprio quello che si definisce un “allegrone”) sosteneva che “chi non sa popolare la propria solitudine, nemmeno sa essere solo in mezzo alla folla affaccendata”; e con cosa vogliamo popolarla questa solitudine, se non con una massiccia dose di intimità? Anche in questo caso, non parlo di qualcosa di “fisico”, bensì di quel rapporto privilegiato che si riesce a stabilire con uno, massimo due esseri umani con i quali certe volte non sono necessarie nemmeno le parole per farsi comprendere. E se questi “altri” non esistono o non li si riesce a trovare, allora restano pur sempre le nostre conoscenze, i nostri interessi, la nostra voglia di vivere e di migliorarci perché, come dice il Poeta: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir vertute e canoscenza.
E se ci pensi bene anche questa un’affermazione contiene ed esalta il concetto di intimità e, di concerto, quello di solitudine; infatti se pensiamo ai grandi della Storia, ai Santi, agli Eroi ed a tutti coloro che in qualche misura e con il loro agire hanno influito sul destino dell’umanità, non possiamo che dedurre che essi sono diventati tali perché, nella solitudine della propria intimità, hanno saputo e voluto valorizzare le proprie capacità fino a sublimarle.
Dice infatti Paul Gauguin “la solitudine non è consigliabile a tutti, perché bisogna essere forti per sopportarla e per agire da soli” e dice pure bene. Il debole si sente solo; l’insicuro si sente solo; il vigliacco si sente solo; l’incapace si sente solo; il fedifrago si sente solo; l’ignavo si sente solo; l’ateo si sente solo.......si sentono soli coloro che hanno perduto o non hanno mai avuto una propria intimità, quella sfera tutta personale dove coabitano la fiducia in se stessi, nel prossimo ed in un Qualcosa di superiore cui far riferimento.
Non è questione, secondo me, di crearsi alternative o di sfiancarsi, di umiliarsi per cercare un’integrazione nel mondo circostante che sarebbe comunque fatua, perché si tratterebbe di sconfiggere una solitudine fisica che nulla ha a che vedere con quella sfera intima che è esclusiva di ciascuno di noi.
Senza sembrare presuntuoso, non ricordo momenti in cui mi sia sentito veramente solo, anche quando ho trascorso lunghi mesi lontano dai miei affetti più cari; non mi sono mai sentito solo perché ho sempre creduto in me stesso, nei ridotti limiti connessi con le mie capacità, nella sacralità dei miei affetti, nella giustezza delle mie scelte e nell’importanza della mia professione. Non mi sono mai sentito depresso io, neanche nei momenti peggiori della mia vita che, grazie a Dio, non sono stati pochi; non mi ci sono mai sentito perché ho sempre creduto che quel Qualcosa di superiore che io chiamo Dio non poteva volere il male per me e per i miei cari; non mi ci sono mai sentito perché, nonostante tutto, la vita è un’avventura troppo bella ed esaltante per essere rovinata da atteggiamenti paranoici.
Ecco perché, caro Francesco, posso affermare con serenità che, per me, il termine solitudine ha un significato molto ma molto ristretto, limitato nel tempo e nello spazio e certamente mai influente sulla mia spiritualità, sulla mia mente, sulla mia intimità dove c’è spazio per pochi “eletti”. Potrai sempre dirmi che sono un limitato, uno che si accontenta di poco, uno che non ha ambizioni; forse, avrai anche ragione ma, Ti chiedo, se cosi mi sento appagato, perché cambiare?!
Grazie dell’attenzione e dei preziosi “stimoli” che mi e ci offri.
Un abbraccione, Ettore.
Carissimo Francesco,
RispondiEliminaè sempre un piacere leggere le tue osservazioni, puntualmente appropriate. Esse, inoltre, hanno l'indiscutibile merito di tenere sempre accesa la fiaccola. Circa la solitudine, esclusi i particolari casi di disagio per cui andrebbero fatte considerazioni a parte, penso che ognuno di noi, prima o poi, veda assottigliarsi sempre più le proprie frequentazioni. E' un ineluttabile processo naturale a cui bisogna essere preparati. Ritengo, quindi, che il rimedio, quando è possibile porlo in essere, consista nell'individuare quelle poche persone che, per affinità complessive, possano condividere con noi i nostri interessi. La risposta più potente, tuttavia, rimane, secondo me, la capacità introspettiva. Quando abbiamo la fortuna di poterci raccogliere in noi stessi allora possiamo cogliere l'essenza dell'esistenza e godere in pieno la gioia che da questa scaturisce. In questo caso non c'è alcuna solitudine. Non ho altro, per ora.
Michele Coppola