Già da tempo, avevo inviato al buon Oliviero alcune mie riflessioni sulla non certo esaltante situazione (militare e civile) che si sta avendo in Afghanistan. Poi, riflettendo sulle “riflessioni", ho pensato che le stesse fossero o potessero essere liquidate come banalità tanto erano ovvie, per cui l’ho pregato di soprassedere alla pubblicazione.
Invece, l’ottimo fondo di PierLuigi Battista pubblicato sul “Corriere” del 2 aprile con il titolo “Lo sfregio dei diritti” , mi ha infuso coraggio e confortato sul fatto che le mie riflessioni tanto banali, poi, non lo erano; non che l’editorialista ne dica di sue, quanto perché ciò che lui afferma giustamente è un dato di fatto che solo un’ ipocrita interpretazione del politicaly correct può millantare come “normalità”.
Quando nel lontano ottobre 2001 fu dato inizio all’operazione che avrebbe portato all’abbattimento del regime talebano, la maggior parte del mondo civile plaudì, anche perché la stessa operazione era stata presentata come una sacrosanta missione da intraprendere e portare a termine, affinché anche quel martoriato Paese potesse abbeverarsi alla benefica fonte della Democrazia.
Non voglio addentrarmi nei meandri storico-culturali e sociologici che dimostrerebbero abbastanza agevolmente quanto sia arduo parlare di democrazia ad un popolo che, il termine, non lo ha nemmeno nel proprio vocabolario biologico, come molti altri d’altronde. Vorrei piuttosto riflettere sulla definizione che configura il “missionario” come persona o fatto che si presenti come esempio di dedizione ad una santa e nobile causa e verificare se la stessa si attagli a quanto sta avvenendo in quelle lontane ed impervie contrade.
Militarmente, è di tutta evidenza che il nemico, non solo non è stato annientato ma pare che stia riprendendo vigore, come dimostrano le cifre sempre più elevate di perdite militari, per non parlare di quelle civili a causa dei “danni collaterali” e degli attentati terroristici.
Civilmente, non mi sembra che le cose vadano meglio ed il recente provvedimento legislativo inerente al “trattamento” riservato alle donne è databile più nell’Alto Medioevo che nel terzo millennio; inoltre, l’atavica ripartizione in Tribù, proprio perché cementata da secoli in ogni individuo, impedisce la concezione stessa di uno stato unitario, figuriamoci la sua realizzazione!
Si è voluto fare i missionari , pensando che sarebbero bastate quattro cannonate, qualche palata di dollari e magari pure un paio di Mac Donalds perché, per incanto, si instaurassero le libertà fondamentali, i diritti umani fossero riconosciuti e rispettati, i “Signori della guerra” si tramutassero in rappresentanti liberamente eletti e dessero vita ad un Governo con autorità su tutto il territorio e che una dinamica economia di mercato soppiantasse quella incentrata solo sull’oppio.
Forse, l’approccio manicheo di voler dividere il mondo in “buoni” e “cattivi” ha indotto a considerare l’operazione afghana quasi come lo sbarco in Normandia, come premessa cioè di ridare la libertà a popoli oppressi, con la sostanziale differenza però che allora quei popoli avevano gli stessi Valori, la stessa matrice culturale, quando non anche la stessa etnia dei “liberatori”.
Qui (come in Iraq) si tratta di popoli che, da sempre, sono stati allevati secondo categorie culturali, religiose e sociali che non hanno nessuna fascia di sovrapposizione con quelle occidentali, quando non sono addirittura conflittuali; lungi da me l’idea che noi siamo i “buoni” e loro i “cattivi”: siamo semplicemente diversi ed il processo di “riavvicinamento” avrà, giocoforza, tempi generazionali.
Dubito fortemente che quanto sopra esposto possa configurare un missionario, almeno nell’accezione più pura. E’ pur vero che i missionari al seguito dei Conquistadores non ci andarono troppo per il sottile nel perseguimento della “santa e nobile causa” dell’evangelizzazione degli indios, come pure i pionieri nei confronti dei nativi nord-americani.
In quei casi, però, i rapporti di forza erano talmente sbilanciati a favore di una parte che non ci fu mai partita; in Afghanistan questo non è vero, per cui appare quanto meno ragionevole e saggia la decisione del Presidente Obama a rimboccarsi le maniche per individuare ed applicare un’onorevole exit strategy.
(Ettore)
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Caro vecchio “missionario”
Le Tue sono riflessioni tanto ovvie quante lontane dalla comune e generale opinione.
La gente vuole credere che i nostri soldati stanziano su suoli altrui per insegnare alla società locale come si viva democraticamente e conia slogan da esibire tutte le volte che si tenta di analizzare a fondo le motivazioni che hanno portato agli attuali conflitti.
L’affermazione di Luigi “la nostra è una missione di guerra” mi ha riempito di orgoglio perché, abituato come sono ad essere circondato da gente che spera di mantenere il proprio orticello dividendo e discriminando nettamente i buoni dai cattivi (naturalmente loro sono sempre dalla parte dei buoni), non mi è parso vero di sentire, da un Soldato come Lui è, ciò che la comune opinione nega sistematicamente con abominevole ipocrisia.
Missionari non lo siamo, come non le erano gli antichi conquistatori, semplicemente perché siamo esseri umani abituati alla continua ricerca di mezzi che soddisfino i nostri bisogni di ricchezza, di potere, di egocentrismo e così via sino anche al semplice bisogno di sfamarsi; io sono convinto che il terrorista suicida abbia sì una consistente dose di fanatismo mistico ma anche un concreto bisogno materiale di sostentamento negatogli dalle proprie condizioni di vita.
Quando ci si convince che i propri bisogni debbano essere soddisfatti a qualunque costo, svaniscono sia i sentimenti di umanità che la razionalità; se così non fosse non si capirebbe perché l’attuale governo israeliano abbia rimesso in discussione la possibilità che possa esistere uno Stato palestinese.
Missionari però lo siamo nel tentare di “smuovere” i nostri compagni di corso dalle loro quotidiane fatiche per riportarLi virtualmente, con l’acquisito bagaglio di esperienze vissute, nei saloni dell’Accademia e chiacchierare sui problemi di questo mondo bizzarro.
Parlare senza condizionamenti, esternare con semplicità le proprie idee e, ancor più, saper ascoltare gli altri, ci fa bene e serve sempre a migliorarci.
Un abbraccio a tutti, con gli auguri per una buona Pasqua, ed in particolare ai compagni di corso abruzzesi.
Francesco
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