Il termine greco αμνός (amnòs, lat. agnus) indica una pecora giovane, a volte di un solo anno, o un animale per il sacrificio; anche αρεν (arèn, lat. ovis, aries) indica un agnello da macello, mentre coloritura patetica riveste il diminutivo αρνιον (arnìon, lat. agnellus) agnellino.
Nella tradizione biblica degli scritti sacerdotali, l'agnello è la vittima sacrificale privilegiata, sia sotto forma di olocausto o di semplice offerta sia sotto forma di purificazione del popolo o di singole persone. Il suo sangue, infatti, è versato sia per onorare Dio sia come mezzo di riscatto dalla schiavitù in Egitto.
Tanta varietà semantica e simbolica, quasi emblematica, confluisce nella designazione cristologica di Gesù come Agnello Figlio di Dio. E, mentre la figura della pecora -con la sua funzione autonoma nel gregge- è preferita dall’immaginario del mondo gnostico, l’agnello presso gli autori cristiani conserva sempre un particolare aspetto cristologico di tenerezza: nella simbolica del dolore, come l’agnello portato al macello; nella simbologia escatologica, come l’agnello che sta sul monte Sion; nella dimensione deprecativa, sacrificale ed espiatoria, come l’agnello che porta e toglie il peccato; nella tipologia pasquale, come somma, sintesi ed esaltazione degli aspetti pneumologici (i pascoli spirituali), cristologici (l’Agnello Cristo), teologici (Dio Pastore) dell’evento salvifico, condotto a compimento da Cristo.
Grande rilievo ha perciò avuto il simbolismo dell’agnello anche nelle Catacombe e nei primi luoghi ove i Cristiani hanno potuto professare pubblicamente la loro religione.
Nelle basiliche post-costantiniane, l’agnello polarizza la dimensione visibile del
mistero trinitario ed ecclesiale: la croce e l’agnello indicano la vittima, il rosso porpora dello sfondo e le palme ne indicano il trionfo.
Questa breve, sommaria rassegna testimonia dell’importanza che un animale, piccolo, dolce, innocente, mite, inoffensivo ha rivestito nel contesto di due delle maggiori (e, sicuramente, le più antiche) Religioni monoteiste del mondo, assurgendo, nella seconda, ad un rango simbolico, eccelso ed a valenza duplice.
Nel mondo classico, per contro, l’ovino –adulto o no- diciamo che non era investito di nessun altro significato; lo si sacrificava e basta! Ad onor del vero, Omero tenta di conferirgli un aura poetica quando ci descrive il Pelide intento ad arrostirne uno allo spiedo; ma niente di spirituale comunque!
Nella Poesia, nella narrativa, nelle favole, l’agnello è sempre accostato al lupo e non sempre se la cava bene, salvo quando “s’enfurbisce” come lo canta il grande Trilussa; mentre William Blake, in “The Lamb”, tocca vette di lirismo che strappano le lacrime.
Ma il ruolo centrale dell’ agnello –che d’ora in avanti eleveremo al rango di abbacchio- non si esaurisce nella pur fondamentale dimensione spirituale o artistica ma ha investito anche la più terrena dimensione mangereccia, diciamocelo pure molto più appetibile e meno impegnativa.
Ma anche in questa dimensione, l’abbacchio non è trattato come una bestia qualunque; si pensi solo che si scomoda Giovenale che lo definisce “: "il più tenero del gregge, vergine d'erba, più di latte ripieno che di sangue", mentre il grande gourmet Marco Gavio Apicio , in una delle sue celeberrime ricette, scrive a proposito dell’abbacchio partico: “Lo metterai nel forno. Triterai pepe, ruta, cipolla, santoreggia, prugne di Damasco snocciolate, un po’ di silfio vino, liquamen e olio. Ancora bollente si bagna sul piatto con l'aceto e si mangia”.
Nella terra che ha dato la civiltà al mondo, c’è un rapporto di odio/amore con questo animaletto ma non nell’accezione “umana” dei termini, in quanto per “odio” bisogna intendere la necessità di nutrirsi e per “amore” un profondo senso di tenerezza; sembrerà un po’ mefistofelico, però quei miei lontani avi che rapirono le “ave” di Giggetto dando così origine a cotanta progenie, ci hanno tramandato il dogma che l’abbacchio si ama ma, siccome lo stomaco è debole, se magna puro!
Infinite sono le modalità culinarie per onorare il sacrificio di questo inimitabile animaletto; sono tutte molto semplici, molto gustose, molto delicate, come molto semplice, molto dolce, molto delicato ne è il protagonista.
Di tutte e per far contento Raffaele, indico la più semplice e la più immediata di tutte: lo scottadito!
Sono sufficienti un braciere acceso, una griglia, dei rametti di rosmarino, qualche goccia d’olio, un pizzico di sale, tanta fame e, logicamente….le Sue tenere costolette.
Ciao a Tutti,
Ettore.
Caro Ettore con questa tuo sublime, immenso, culturalmente denso ed impegnato escursum sull'abbacchio, hai dimostrato quanto sia difficile, per il povero uomo, staccarsi dai bisogni terreni per elevarsi a figura divina. Come può la ludica e soave figura del bianco agnellino pascolante fra immacolati prati vermigli vincere su un fumante ed odorante piatto di scottadito cotto al forno e semplicemente condito con olio extra vergine, prezzemolo e patatine novelle?...ai posteri l'ardua sentenza
RispondiEliminaFrancesco
Carissimo Ettore, ho letto con avidità culturale il tuo pieno ed erudito argomentare sull'agnello e ti confesso che sono stato colto anche da un iniziale pentimento nei confronti degli agnelli al forno da me sacrificati nel corso della vita. Poi però mi sono ripreso, perchè in effetti hai smesso di parlare di agnelli e ti sei rivolto al più prosaico ma gustoso Abbacchio. La definizione data da Giovenale rispecchia ancora oggi i canoni del vero abbacchio e spero,dopo essermi asciugate le lacrime, di poter gustare nella prossima Pasqua un delicato,semplice,inimitabile SCOTTADITO. Con affetto Raffaele
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