mercoledì 9 febbraio 2011

Adesso è sempre

Poco più di un anno fa sono stato a Parigi per un consulto presso una clinica oncologica di altissimo livello con la documentazione di mio fratello afflitto da un tumore al polmone. Il mio è stato un viaggio "della speranza", della illusione se vuoi, ma ero pronto a tutto per provare a dare ancora la vita a mio fratello.
Da pochi mesi se ne è andato, non ce l'ha fatta. Ed io ho voluto scrivergli una lettera. Certo il nostro blog non è forse il luogo più idoneo per accoglierla .. però ...ho ripensato in questi giorni alla nostra cerimonia nel Sacrario della Gran Madre a Torino, e nella mia mente rimbalzano ad uno ad uno i nomi di tutti gli altri fratelli del 150° che non sono più con noi. A loro, attraverso il ricordo di mio fratello, voglio rivolgere il pensiero di un immutato affetto.
Pierfranco






Si cresce in tanti modi, si diventa grandi mettendo da parte molte cose. Troppe.
Soldi, ricordi, fumetti e stampe, orologi da taschino, quadri e lampade, vecchi PC e Lacoste slavate e foto che non guarderai che una volta. Si cresce accantonando nella banca della memoria spiccioli di ricordi pur sapendo che non diventeranno ricchezza e non ti verranno restituiti con gli interessi, anzi, svalutati ti torneranno indietro, like a rolling stone, come un macigno.
Si cresce a volte con altre cose, mettendo da parte le lacrime trattenute, i dolori non esternati e le parole non dette. Come adesso, che vado a prendere quel che resta di te, fratello mio, Gianni. Faedda.
Nella nostra lingua “faedda” vuol dire “parla”, imperativo categorico che non appartiene a nessuno eppure è di tutti.
Faedda.
Parla, in quel tuo ultimo letto di casa tua, nel silenzio atroce di una stagione indefinita senza voce e senza pace, solo quello che volevo dirti e ascoltare da te era: parla, fratello mio, parla e raccontami ancora una volta le cose che sappiamo.
Gianni, per amor di DIO!
Lingua di mille sere silenziose che si sono spalmate come balsamo sulla fine dei giorni, sulle speranze e la rabbia, sul dolore, la rabbia e la gabbia che entrambi ci conteneva e non poteva fermarci, ma amarci, perché eravamo pieni d’amore. Gianni, adesso, che non saprei raccontarti in nessun modo quell’Abacada (pace, calma) che solo tu, per primo hai sentito dispiegarsi nelle nostre case, perché tu sapevi essere molte cose, non una definita, ma tante, da poter scegliere il finale ed anche il principio. Ma anche saperle riscriverle, perché le nostre verità viaggiavano più veloci delle bugie e non potevamo, come bestie, appendere il loro collo al gancio di un punto di domanda ed aspettare, esangui, la fine. Si sarebbero dati alla Morte in altri modi, ma non certo nel silenzio.
Gianni, i ricordi sono qui, accanto al telecomando del cancello, su un pane carasau e un vermentino che ci aspetta, qui a casa mia o a casa tua, nella tua vecchia lancia dedra amaranto, sul PC Olivetti di casa tua (che ci ha fatto litigare selvaggiamente) con i tasti rivestiti di carta adesiva, sulla tua ostinata pazienza.
Sono qui. Torniamo indietro, per favore, a quando tue figlie erano bambine, a quando tu sorridevi orgoglioso di loro. Ricordi quando Francesca stava per finire l’università e Lucilla già dava segni importanti della sua genialità? Quando tua moglie sorrideva prendendo in giro suo marito finto burbero? E guardiamo dal tuo terrazzino Sassari, la nostra piccola grande città di adozione, che sbatte la testa sopra il guscio di una lumaca dalla quale non riesce a uscire.
Puoi sentirmi fratello, puoi? Fuori, accanto all’incanto di questi giorni metto in tasca la tua malattia, il dolore e la rabbia, esco per strada e impugno come unica arma la tua dolcezza, la tua sterminata generosità e il tuo coraggio e altre, altre cose che non si possono dire, perché veniamo da una terra di poche parole e allora io adesso mi armo come un guerriero della più mortale delle armi, il silenzio.
Torniamo a Foresta, torniamo, al principio.
Dico, vieni adesso notte, vieni giorno oppure venite insieme come amanti rappacificati a prendere quello che ho messo da parte; qualcosa perché nessuno trovasse la mia casa non pronta.
Accendo una sigaretta, anzi due ne respiro il veleno e mi sento bene, meglio di prima; ora, la morte è una cassaforte che nessuno può aprire.
Meglio così, meglio. Tu hai la chiave: e allora infilala nella serratura di questa notte, la prima senza te.
E adesso, da qualche parte, nella mia vita veloce e confusa ho lasciato per te queste lacrime fratello mio, erano tue da tempo ma non potevo lasciarle scendere prima sul viso, come specchi nei quali riflettere il tuo dolore. Adesso sono libere di precipitare Gianni, libere di darsi al sole di questo tempo, diventare vapore e spirito e fondersi col tuo da qualche parte.

Se in questo tempo non sono stato sempre alla porta dei tuoi pensieri chiedendoti di entrare, se non ho sempre diviso con te il pane del tuo dolore e bevuto l’angoscia dei giorni, non pensare che mi sia in nessun momento dimenticato di te, fratello mio, non pensare che io sia stato lontano. Io ero altrove a battere sui miei tamburi,a scacciare via sorella morte e dirle: torna dopo. Non è l’ora, non è il tempo.
Io sono qui, accanto alla tua assenza, a spingere, anche solo di un passo, il male più lontano, con i remi del nostro viaggio. Io sono qui con le mie tasche piene dei giorni meravigliosi che abbiamo costruito e conservato, qui, a ricordare ogni istante ed ogni passo, a ripassare le poesie dei giorni, a ricordare il sapore del vino e delle feste, delle parole e delle speranze, qui, accanto a quello che la tua vita ha cambiato.
Qui, fratello, carne che aveva sin dal principio lo stesso sangue e che ha sempre saputo fonderci in uno a cercare quei posti dove la gente non conosce il mare e piantare il remo del nostro andare su una terra abbastanza solida da non farlo scivolare sulla sabbia.
Il nostro mare del colore del vino che abbiamo bevuto e col il quale brindato a Dio.
Fuori il caldo è una coperta amica; mica bisogna cercare sempre il ghiaccio per trovare il fresco o la neve o l’ombra; mica bisogna pregare qualcosa o qualcuno per avere refrigerio o tepore.
Mi è sempre bastato, allora come adesso, sapere che c’eri, e che sei sempre stato, nei momenti in cui la vita si misura con strumenti complicati, un punto sicuro. Non c’era bisogno, in altri tempi, di un termometro per sapere se fuori di noi c’era caldo o freddo, bastava solo mettere i nostri passi uno sull’altro, la nostra pelle ed il nostro cuore, in fila.
Dentro, negli angoli che tu sai, in quei posti che sono solo nostri, avevamo quello che abbiamo cercato, quello che sappiamo di trovare in questo ed in altri giorni.
Come adesso, che preparo il mio tavolo ed aspetto che tu torni e prenda posto, il tuo, quello ti appartiene e che nessun’altro prenderà.
Ora come allora, come sempre.
E allora, Faedda, parla in queste ombre, rompi anche per un solo attimo il silenzio, che ci sono già troppe luci spente stanotte, accendi le tue, che sono mie e nostre.
Puoi sentire la musica? Puoi sentirla? Suona per te. Solo per te. Danza.

1 commento:

  1. Francesco Miredi10 feb 2011, 09:13:00

    Caro Pierfranco, la tua lettera mi ha commosso. La morte ci costringe ad abbondonare ciò che di più importante ci è stato dato ma se in vita riuscissimo a generare negli altri le emozioni da te rappresentate, la nostra anima continuerà a vivere anche sulla terra.
    Ti abbraccio
    Francesco

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