martedì 16 febbraio 2010

Appalti, bilancio e libero mercato

Segue il "Facce capì !!!"

Ettore carissimo, restando coerente con le idee sin’ora espresse, ritengo che il plauso vada esteso a quella parte di apparato statale che, nella fattispecie, ha ben funzionato. Determinanti, in questo caso, sono state le intercettazioni il cui iter normativo subirà, a breve, una completa trasformazione (a mio avviso in peggio).
Gli appalti pubblici sono contratti fra l’Ente e l’impresa aventi ad oggetto, dietro corrispettivo, la realizzazione di un’opera o di un servizio. Essi rappresentano il mezzo per il quale l’Amministrazione utilizza il denaro prelevato dai cittadini per investire nelle strutture necessarie alla comunità e incidono pesantemente nella formazione dei pubblici bilanci e del mercato.
Semplificando il concetto, lo stato patrimoniale di un bilancio ha una sezione “attivo”, nel quale vengono inseriti gli “impieghi”, cioè quanto l’Ente ha realizzato, e una sezione “passivo” che contiene le “fonti” cioè l’ammontare di denaro necessario alla realizzazione degli “impieghi”. E’ evidente che il bilancio sarà equilibrato se il valore reale del realizzato corrisponda esattamente al denaro speso.
In termini di mercato globale, nell’ambito della nostra economia l’incidenza degli appalti pubblici è molto alta (circa 300 miliardi di euro) ed è elemento preponderante del fatturato di tutte le imprese, grandi e piccole, che operano in quel settore; capirete, quindi, come il modo di utilizzo di questo strumento, possa più o meno agevolare lo sviluppo e la redditività dell’appaltatore che entra a far parte di un contesto dove la libera concorrenza può diventare pura utopia.
Le norme che regolano questo settore sono piuttosto eterogenee e, in qualche caso contraddittorie tanto che, nel 2004, sono state emanate due Direttive comunitarie, la n. 17 e la n. 18, che imponevano una semplificazione ed una risistemazione complessiva della materia. Le principali novità introdotte da tali Direttive erano essenzialmente la costituzione di un corpus normativo unico per i tre settori dell’appalto: opere, forniture e servizi e l’introduzione di nuovi istituti che rendano più flessibile l’attività contrattuale della pubblica amministrazione.
A seguito di queste direttive, con l’art. 25 della legge 18/04/05, era stata data delega al Governo di costituire un Codice degli Appalti che, molto frettolosamente, era stato introdotto con D.L. n. 173 del 12/05/06 e più volte modificato sino all’ultima Legge n. 14/09.
Le principali novità rispetto alla vecchia Legge Merloni sono state le seguenti:
a) è stata riscritta la normativa sui lavori pubblici ampliando il ricorso alla trattativa privata piuttosto che alle formali “gare”; è stato ampliato e reso “normale” il ricorso al meccanismo dell’offerta economicamente più vantaggiosa abbandonando il tradizionale ricorso al massimo ribasso;
b) è stata data la possibilità alle imprese di raggrupparsi in varie forme associative per poter assicurare quella solidità patrimoniale che da sole non avrebbero avuto;
c) sono stati regolati, con norme a mio avviso poco interpretabili, i rapporti fra Stato e Regioni e con appaltatori partecipati da Enti pubblici.
In parole povere, la paura che, dopo tangentopoli, aveva portato il legislatore ad emanare una miriade di norme tendenti alla massima formalizzazione e pubblicità della gara di appalto e al più severo controllo sull’impresa appaltatrice, sono state, nel corso degli anni, sempre più addolcite per il principio che il mercato richiede maggiore flessibilità ed autonomia.
In realtà gli appalti pubblici hanno sempre indotto forme di associazionismo a delinquere fra imprenditori e politici che si sono realizzate o nella parte iniziale del rapporto – al momento cioè di aggiudicazione della gara di appalto – o durante il rapporto – con l’introduzione di varianti alle opere – o alla fine del rapporto quando il saldo dell’opera viene quantificato in valore molto più alto rispetto a quello proposto inizialmente.
Oggi, rispetto a quattro anni fa, è molto più facile che “l’inciucio” si verifichi all’inizio del rapporto pilotando la scelta sull’impresa appaltatrice; ieri la “combine” si realizzava con l’approvazione, da parte dell’Ente pubblico, delle così dette “riserve”. L’aspirante appaltatrice si presentava con una richiesta di corrispettivo che non copriva nemmeno i propri costi ma, in applicazione della normativa in vigore, sapeva che, nel corso dell’opera, avrebbe potuto accantonare richieste per lavori non preventivati e che si sarebbero resi necessari in accordo con il committente. Alla fine dell’opera gli accantonamenti richiesti, le così dette riserve, superavano di tre o quattro volte il corrispettivo pattuito all’inizio. Nei casi in cui le riserve non venivano accettate dall’Ente pubblico, la legge prevedeva ( e prevede ancora) un arbitrato inappellabile che decide in merito e in molti dei collegi arbitrali venivano chiamati magistrati che percepivano compensi elevatissimi.
In tutti gli atti di corruzione e/o di concussione che io conosco, il guadagno (la mazzetta) del politico è minimo rispetto a quello dell’imprenditore e a ciò si deve aggiungere l’effetto devastante sulla leale concorrenza e sulla effettiva libertà di mercato. Gli imprenditori onesti o comunque quelli che non hanno la possibilità di corrompere hanno meno possibilità di lavoro e, il più delle volte, devono lavorare sotto l’egida di coloro che hanno preso l’appalto ed essere costretti ad un’altra pratica non lecita ma usuale nel settore delle costruzioni; la sovrafatturazione delle proprie prestazioni con la creazione di falsi costi fiscali e di ristorno “in nero”.
Per questo preferisco i vecchi politici che sono nati e preparati per fare i politici ed amministrare il denaro pubblico piuttosto che gli imprenditori rampanti che nella loro esperienza hanno imparato ben altro..
Vi abbraccio
Francesco

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