Ettore e Francesco hanno, giustamente, buttato aceto su di una ferita aperta: la carenza di addestramento, a tutti i livelli.
Purtroppo nulla di nuovo sotto il sole. E’ una lamentela sacrosanta che sento e vivo da quarant’anni, ora più pressante per l’impiego continuo delle nostre unità in operazioni di guerra all’estero (chiamiamole con il loro nome!).
Tuttavia vorrei fare alcune considerazioni.
Non concordo completamente con Ettore quando accenna al senso d’inferiorità che i Comandanti italiani proverebbero durante le missioni all’estero. Io non l’ho mai provato e così i Quadri e i soldati con cui ho operato. Al contrario, sono sempre rientrato in Patria estremamente “carico” per quello che ho visto fare ai nostri soldati e ai nostri Comandanti e dal confronto con gli altri.
In pochi anni abbiamo fatto passi da gigante.
Ricordo la prima missione in Bosnia nel ’96 quando, presi da mille ambasce logistiche, guardavamo con ammirazione l’organizzazione francese, l’imponente apparato logistico americano, il pragmatismo ed efficientismo tutto teutonico, con cui la Germania aveva approntato la sua organizzazione di Comando.
Solo due anni dopo, da Comandante della Brigata “Friuli” / Multinazionale NORD, potei constatare che in molti campi eravamo alla pari, in altri li avevamo superati.
Ma torniamo all’addestramento.
Vi sono alcune specializzazioni molto tecniche, come ad esempio quella dei piloti, che richiedono un addestramento svolto secondo criteri qualitativi e quantitativi ben precisi e non si può andare al di sotto di certi limiti pena l’aumento del rischio in maniera esponenziale e la perdita della capacità operativa. Per soddisfare queste esigenze ci vogliono molti soldi ed è qui, in questi spazi incomprimibili, che le risorse devono essere concentrate.
In altri comparti la situazione è meno drammatica. Per il tipo di missione che stiamo affrontando, è richiesta soprattutto capacità di Fanteria e una buona logistica e sulla prima c’è molto da fare anche in carenza sensibile di risorse, basta avere la mentalità e la volontà giusta.
E qui, purtroppo, casca l’asino perché mentalità e volontà giusta vogliono dire tanta attività fisica, tanta fatica, educazione alla resistenza, alla sofferenza, all’aggressività, fantasia, impegno continuo di quadri e soldati. Vogliono dire studiare, “soppizzare” e valutare ogni più piccolo dettaglio operativo per non lasciare nulla al caso. Fare dell’ardimento, della lotta corpo a corpo a mani libere e con il coltello, del tiro con le armi individuali, della topografia e del primo soccorso, il pane quotidiano; fare un uso intensivo e intelligente dei simulatori, fare zavorrate, sopravvivenza, attività a partiti contrapposti ecc. e tutto questo con continuità. Bisogna creare, insomma, la mentalità di combattimento.
Purtroppo ho la certezza che, fatta eccezione per alcuni reparti, i soliti, questa mentalità è poco diffusa, si appesantiscono pance, sederi e cuori e in questo contesto la carenza di risorse può divenire un comodo paravento.
So bene che questo non è l’optimum, che le esigenze addestrative sono molteplici, molto più variegate e complesse e le mie dichiarazioni possono apparire semplicistiche ma poiché la situazione è quella che è, è inutile piangersi addosso, bisogna fare di necessità virtù.
Non è affatto indispensabile organizzare esercitazioni di complesso o gruppo tattico a fuoco o attività articolate e costose che poi, come ben sapete, rischiano di diventare i famigerati, odiatissimi (spesso solo a parole) “vasetti” (anche se su di essi si sono costruite non poche carriere).
Se in questa situazione di crisi riuscissimo a creare eccellenti combattenti individuali, duri, coraggiosi e preparati, buone squadre e buoni plotoni, già avremmo fatto tantissimo ed avremmo evitato che il nostro Esercito diventi una succursale della Croce Rossa e dei boy-scouts.
Luigi Chiavarelli
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Francesco risponde a Gigi.
Ancora sulla crisi e sulle risorse
Se ho ben compreso il pensiero di Luigi, si può dire che il problema non è tanto nella quantità di risorse materiali ma nella capacità di ottimizzare ciò che sia ha a disposizione e questo vale anche in campo civile. A parte il settore dell’alta tecnologia o della chimica, dove la ricerca assurge ad elemento preponderante, la media e piccola impresa possono sperare nella conquista di quote di mercato solo se dotate di “comandanti” capaci di organizzare al meglio il lavoro dei propri collaboratori e di lavorare senza tener conto del limite sindacale.
Purtroppo questa speranza è spesso frustrata dagli interventi dello Stato il quale, agevolando sistematicamente un settore imprenditoriale specifico (le partecipazioni statali ai tempi della “prima repubblica”, le cooperative comuniste o le odierne imprese berlusconiane) vanifica le regole del libero mercato a danno di tutti i cittadini. Prendiamo il settore bancario; qui si può dire, grossolanamente, che l’utile viene generato dalla differenza fra lo spread (il costo del denaro fatto pagare agli utilizzatori) e i costi fissi (struttura e personale). L’immagine necessita di elevati costi fissi che vengono coperti, o nascosti, aumentando, il più possibile, lo spread. Lo spread alto viene però accettato solo dagli utilizzatori più bisognosi e, quindi, a più alto rischio di insolvenza.
Questo giro vizioso è stato indicato come la causa principale dell’attuale crisi mondiale e ieri, durante la trasmissione Domenica In, ho sentito il dott. Confalonieri auspicare l’intervento dello Stato a favore delle banche. Questo è un classico esempio di come coloro che si dichiarano liberali vogliono, in realtà, condizionare il mercato; l’intervento a favore di chi non ha meriti sul campo danneggia coloro che, al contrario, si sono comportati con oculatezza e rappresenta un chiaro atto di concorrenza sleale. Mediolanum, tra l’altro, è una banca che vende i propri prodotti finanziari utilizzando, in gran parte, gli uffici postali ed ha risolto, quindi, il problema dei costi fissi utilizzando una metodologia negata alle sue concorrenti.
Ritornando alle problematiche prettamente militari, credo che ci siano “sacche” di utilizzo di risorse che si potrebbero tranquillamente risparmiare e che, forse, per ottenere ciò che è stato suggerito da Luigi, servirebbe una più pregnante attività di scelta e formazione del personale destinato al comando.
A causa della mia attuale professione, ho ancora contatti con il mondo militare e, a sostegno della mia tesi, riporto due esperienze personali.
La scorsa settimana ho difeso, in una udienza preliminare presso il Tribunale Militare di Verona due giovani caporali in servizio effettivo indagati per “minaccia” ad altro collega. Le Procure ed i Tribunali militari hanno organici decisamente sovradimensionati rispetto alle cause che trattano e, anche per giustificare la loro esistenza, è raro che chiudano un processo senza aver istruito ed eseguito l’iter procedurale sino alla sentenza. In questo caso, però, persino il P. M. aveva chiesto l’archiviazione in quanto, dalle indagini preliminari, risultava evidente l’intento scherzoso ed assolutamente non perseguibile dei due indagati. Il GIP ha rigettato l’istanza di archiviazione e si terrà un processo, che durerà non meno di un anno, per una questione che definire ridicola è un eufemismo. Questo è un esempio di come si spendono male i soldi pubblici e, a mio avviso, bisognerebbe rivedere le norme in materia abolendo il codice penale militare di pace e tutto l’apparato creato per farlo rispettare. Le condotte disciplinarmente rilevanti dovrebbero essere rilevate e giudicate dai vari comandanti di reparto mentre quelle penalmente rilevanti dovrebbero essere di competenza della magistratura ordinaria.
L’altro esempio riguarda l’analisi caratteriale su coloro che sono destinati a divenire comandanti.
Circa cinque anni fa, ho assunto la difesa di un ufficiale dell’esercito (proveniente dai sottufficiali) che era stato denunciato da un subalterno donna per “violenza “ di natura sessuale perpetrata attraverso l’invio di sms. Le indagini preliminari, eseguita attraverso le testimonianze di colleghi e subalterni, avevano rilevato altre condotte penalmente perseguibili e portato alla imputazione per i seguenti reati: violenza, minaccia, insubordinazione, disobbedienza e truffa aggravata; conseguentemente era stato imputato anche il comandante di reggimento per omissione di atti di ufficio. Il mio assistito, considerato sempre eccellente nelle note caratteristiche, era stato solo in pò bacchettone e, fra il primo ed il secondo grado, sono riuscito a farlo assolvere ricevendo anche la gratitudine del povero comandante di reggimento che, per cinque anni, aveva vissuto con l’incubo di una condanna immeritata.
L’accusa del subalterno donna non era partita quando aveva ricevuto i messaggi telefonici ma circa sei mesi dopo ed era scaturita dalla convinzione che le sue non eccellenti note caratteristiche erano state condizionate dal suo diretto comandante di plotone che era il mio assistito.
Durante il processo di primo grado, il subalterno donna vinceva il concorso in Accademia e, qualche mese dopo il suo ingresso, un articolo di un giornale di Modena diceva che un insegnate aveva “molestato” una allieva. All’epoca l’Accademia era comandata da Gibellino e non sono riuscito a sapere se la molestata fosse la stessa accusatrice del mio assistito (saperlo sarebbe servito alla mia difesa) ma se i due soggetti coincidono possiamo tutti prevedere quale sarà il suo comportamento da comandante.
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