Solo un inguaribile ottimista avrebbe potuto catalogare come bella quella giornata.
Una nebbiolina umida ed invadente aggiungeva tristezza e malinconia ad un cielo plumbeo ed immobile.
La luce -che da qualche parte doveva pur esserci- lottava disperatamente per farsi largo in quella coltre spessa e compatta; una lotta lunga, estenuante, quasi impari: l’eterna lotta tra la luce e le tenebre.
No, non pioveva, però gli abiti erano ugualmente quasi bagnati, permeati com’erano di quell’umidità stagnante ed invadente che non lascia scampo.
Eppure erano già le otto di una domenica mattina dell’inizio di un ottobre che, a latitudini appena appena inferiori, accoglieva i viventi con un sole ancora tiepido e radioso.
Ma la piccola folla che stazionava davanti a quel cancello in Corso Canalgrande sembrava non essere turbata, come se l’attesa di quello che di lì a poco sarebbe avvenuto fosse il prezzo da pagare per ogni disagio, per ogni rinunzia, per ogni sacrificio.
Erano quasi tutte donne coloro che costituivano quella piccola folla; erano tutte donne tra i quaranta ed i cinquanta; alcune erano anche piacenti ma cercavano di nascondere la loro femminilità con abiti quasi dimessi, senza accenno di trucco, con l’espressione solenne di chi ha una missione da compiere.
Non erano solo donne coloro che costituivano quella piccola folla: erano mamme.
Erano tutte lì, tutte uguali, tutte con un unico pensiero nella mente, tutte con le loro valigie o i loro borsoni pieni di ogni ben di dio, di ogni cosa che potesse lenire le immani sofferenze dell’amato bene.
Erano tutte mamme quelle che costituivano quella piccola folla che aumentava continuamente con l’arrivo di altre mamme, quelle che avevano viaggiato tutta la notte pur di potersi accaparrare una posizione nelle prime file.
Sì perché è fondamentale poter essere avanti, poter gettare lo sguardo il più lontano possibile senza avere ostacoli alla vista: non doveva esserci nulla che impedisse di scorgere lui fin dai primi movimenti che sarebbero avvenuti solo di lì a cinque ore.
Ma che sono cinque ore di attesa, pure in quel clima infame, a confronto della sublimazione di un abbraccio?
Cosa sono cinque ore di attesa a confronto dei pochi momenti di rinnovata intimità, quasi a riallacciare un cordone ombelicale, forse mai reciso.
E le mamme sono lì, imperterrite, profondamente convinte della giustezza del loro operato; non si muovono per non perdere la posizione; ogni tanto scambiano qualche parola tra di loro, sempre per glorificare i meriti dell’amato e per esprimere ribrezzo per le angherie che sta subendo, logicamente, tutte ingiustificate.
Le ore scorrono lentamente; anche la luce è riuscita a guadagnarsi un po’ di spazio e quasi si riesce a vedere oltre una decina di metri, in quella profondità che sarà percorsa da lui.
Gli abitanti locali passano intorno alla piccola folla di mamme, con le loro biciclette; ci sono abituati a quelle scene ma lanciano lo stesso sguardi carichi di incredulità e di umana pietà; qualche donna locale si avvicina per chiedere se serve qualcosa ma riceve solo dinieghi, gentili ma pur sempre dinieghi: è vietato distrarsi!
Il tempo sembra non passare mai e costringe le mamme a pensare; pensano che lui deve svegliarsi ad orari impossibili, che deve rifarsi pure il letto, che deve riassettarsi la stanza, che deve rispettare orari pazzeschi, che deve indossare camicie quasi urticanti per la sua pelle delicata, che deve mangiare chissà quali schifezze, quando lei non era mai uscita a fare la spesa se prima lui non le avesse detto cosa avrebbe gradito mangiare.
Ci siamo; sono le tredici e quindici: le ante del cancello si aprono e lasciano libero il passo carraio; solo un quarto d’ora e poi il viale si animerà di tanti lui.
Le mamme, per nulla stanche, cominciano ad agitarsi, a cercare una posizione ancora migliore; il cielo è sempre cupo e la nebbiolina umida del mattino ha lasciato il posto ad una pioggerellina insistente e compatta, quella che a Roma chiamano gnagnarella. Ma le mamme non se ne accorgono nemmeno, anzi cominciano a preparare gli ombrelli tascabili; ma non li aprono: devono essere solo per lui.
Ecco, in lontananza si vede un gruppo di figure avanzare; sembrano tutti uguali nelle loro belle uniformi; l’ansia accumulata durante la lunga attesa sta per glorificarsi in gioia.
Il gruppo delle figure avanza compatto, a passo spedito, intonando un inno che riempie e sovrasta il silenzio circostante; la distanza si accorcia sempre più; le mamme si alzano sulle punte dei piedi per guadagnare spazio visivo; guardano, scrutano; qualcuna è sicura di aver già riconosciuto il suo lui ed agita il braccio per farsi individuare meglio; la pioggia si fa più fitta ma le mamme non la sentono nemmeno: pensano solo al povero lui che si bagnerà tutto e. magari, si prenderà pure un malanno.
Il gruppo supera la soglia carraia e tutti i lui sono fuori; le mamme avanzano tutte insieme; la calca impedisce qualsiasi visuale; ma loro, le mamme, non hanno bisogno di vedere: è l’istinto che le guida.
Ed arriva finalmente il momento tanto atteso e bramato; le braccia si propendono, poi si stringono intorno ai corpi ansimanti di affetto; le mamme baciano le guance, le fronti, le mani; accarezzano i volti con la tenerezza riservata ad un reduce; gli occhi scrutano, verificano, compatiscono, offrono aiuto: bell’e mammà come sei sciupato, cosa ti hanno fatto?!
Gli ombrelli tascabili si aprono per proteggere il pupo che si fa proteggere, fregandosene se la mamma continua a bagnarsi; vuoi mettere la salute di un pupo, per di più AU, con quella di una mamma!!!
Poi la piccola folla si dirada; ogni coppia sceglie una direzione diversa, alla ricerca di un briciolo di intimità.
Trovato un riparo, le mamme prendono in grembo il pupo; aprono le valigie, i borsoni e gli mostrano, felici, le loro premure: maglie di lana, calze pesanti, camicie di seta, il libro richiesto per telefono, un assortimento di detersivi, ricostituenti e sciroppi, contenitori di plastica con leccornie di ogni genere, le caramelle che gli piacciono tanto; sembra che ci sia proprio tutto: sì ,ci deve essere proprio tutto, perché una mamma non può dimenticare nulla che faccia il bene del suo pupo.
Sono felici, le mamme; sono orgogliose le mamme: anche questa missione settimanale è compiuta!
Il pupo guarda , accenna pure ad un sorriso; non c’è gratitudine nel suo sguardo perché a lui tutto è dovuto; poi, guarda meglio, spariglia tutto, sembra che cerchi qualcosa di particolare; infine, con il tono acido di chi si sente quasi tradito, rimprovera la mamma facendole notare che aveva dimenticato di portargli quello che le aveva chiesto nel corso della trentaduesima telefonata quotidiana di un certo giorno: il biberon con la tettarella a buchi larghi.
Fine della prima scena del feuilleton Ufficiale e bamboccione.
Ciao a tutti,
Ettore.
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