L’orgoglio di appartenenza .
Forse non tutti sanno (ammesso che gli interessi) che tutti i giorni dedico un’oretta del mio tempo da quiescente a delle salutari chiacchierate telefoniche con Oliviero, oltre logicamente lo scambio di e-mail che non segue regole precise.
Sono chiacchierate a ruota libera, sugli argomenti più vari del nostro Bel Paese, su quello che avviene nel mondo, sullo sport e, logicamente, sull’universo in uniforme: nel 90% dei casi, le nostre opinioni divergono. Fin qui niente di nuovo; è normale che due persone adulte che discutono non potranno mai essere d’accordo su tutto ma, nel nostro caso, la discriminante sta nel fatto che le nostre opinioni si sono formate a seguito di esperienze diverse: la mia, unicamente militare; la sua, diciamo così mista, a prevalenza civile, ma pur sempre marchiata da Mamma Accademia. Questo fatto gli conferisce un indubbio vantaggio, in quanto lui conosce a priori quale è il mio processo ragionativo ed i paletti che lo delimitano e lo condizionano, mentre io non so niente del suo.
Tutta questa bella premessa per introdurre un argomento che, una volta tanto, ci ha trovati concordi: l’orgoglio di appartenenza.
Mi ha raccontato infatti che, nel corso dei suoi frequenti giri in bicicletta in quel di Modena e dintorni, ha notato che le maestranze della Ferrari e della Maserati escono dalle rispettive fabbriche con le loro belle tute piene di marchi e di scritte; gli Allievi dell’Accademia invece escono in borghese e mi ha chiesto: perché?
Già, perché? Forse perché quelle maestranze sono “obbligate”? anche se dubito che sia questa la ragione vista la virulenza sindacale che imperversa da quelle parti; forse perché la Storica è un tantinello scomoda e pure individuabile a chilometri di distanza? forse... E se si trattasse invece solo di orgoglio di indossare e di mostrare la divisa del proprio mondo, meglio ancora se si tratta di un’uniforme?!
Non voglio fare della sterile dietrologia ma sfido chiunque di noi a dichiarare che non è mai arrivato a casa tutto impettito, fiero di mostrare il suo status ed incurante del peso del Kepì, della tortura del colletto di plastica e dell’impaccio dei sottoscarpa; che io sappia, non c’è stato nessuno che “si sia messo in borghese sul treno”; anzi so di persone che sono scese dalla corriera una fermata prima per percorrere per intero la strada principale del paese e “mostrarsi” a tutti con soddisfazione, quasi a dire: “ammirate cosa sono diventato e stupitevene pure!”; perfino quando facevamo la “stagione balneare” a Varazze ci crogiolavamo nella nostra iperscomoda “bianca estiva”.
Eppure non eravamo masochisti, né speravamo più di tanto nel fascino irresistibile dell’uniforme sui cuori femminili che rimanevano ermeticamente chiusi, quando non ostili. Il fatto era che eravamo orgogliosi di far vedere a tutti che lo scavezzacollo di solo qualche mese prima era riuscito a far parte di un mondo tutto sommato di prestigio ed ai più ignoto; che avevamo fatto una scelta importante e vincolante, foriera non certo di facili guadagni; che quella scelta l’avevamo fatta in periodaccio della nostra storia repubblicana quando era più facile millantare come “diritto” la ricerca del proprio tornaconto che sottoporsi a pesanti “doveri”.
Ora, invece, i nostri discendenti escono in quell’orribile borghese “da regolamento”, approfittano del primo pertugio per mettersi più comodi, salgono sulle loro potenti auto o moto fino a confondersi nell’anonimato della massa; anche il Clero può non indossare l’abito talare ma nessun prete rinuncia a farsi riconoscere come tale e mostra con orgoglio il simbolo del suo status: la Croce.
Allora, da vecchio quiescente nostalgico, forse pure con qualche sintomo di arteriosclerosi precoce, mi domando: ma se questi giovani ancora con la bocca sporca di latte non sentono la spinta morale di mostrare al mondo chi sono e cosa rappresentano ma quando arriveranno ai Reparti, quando inizieranno ad essere Comandanti, cosa insegneranno ai loro uomini, quale modello proporranno, quali punti di riferimento etici indicheranno?
Non basta, a mio avviso, intonare l’Inno durante le cerimonie, perché sempre dentro un comparto militare ci si trova e, da fuori, non si percepisce proprio niente: resta tutto in famiglia, insomma! Né tantomeno, mi sembra deontologicamente corretto ragionare solo in termini di “orario di servizio”, come un qualsiasi mezzemaniche dell’apparato pubblico che “tira” ad arrivare alla fine del mese nella maniera più indolore possibile.
Tutto ciò mi fa tornare alla mente talune voci che riportavano un fenomeno che sembra stia prendendo piede nei Reparti con l’avvento del professionismo/volontariato; sembra, infatti, che i Quadri più giovani non rappresentino più per i loro uomini quei “fratelli maggiori” che eravamo o che ci sforzavamo di essere noi. Ora sono, si sentono e sono percepiti nel migliore dei casi come dei primi inter pares, ma solo per motivi disciplinari, considerata l’enorme differenza di esperienza che esiste tra un tenentino ed anche il più giovane dei soldati ma con qualche missione nello zaino.
Ma questa logica differenza potrebbe essere colmata se quei tenentini mostrassero di avere quel qualcosa in più che li farebbe somigliare a dei “comandanti”. Ma come si può avere “qualcosa in più” se ci si veste nella stessa maniera, se al termine dell’orario si è allineati sugli stessi blocchi di partenza, se non si dimostra che essere Ufficiali comporta anche rinunce e sacrifici che non sono richiesti ai sottoposti?!
Sinceramente, spero di sbagliarmi per il bene di quell’Esercito che ho anteposto con convinzione ad ogni esigenza personale; però, ho paura che questi fenomeni siano indicatori di un devastante cambiamento di mentalità: quello di svolgere un lavoro qualsiasi, peraltro molto ben retribuito rispetto a “fuori”, con orari rigidi e licenze lunghe, al modico prezzo di qualche “signorsì” detto di tanto in tanto.
Ettore.
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